Conversando con Chiara Smirne - intervista a cura di Veronica Riva in occasione della mostra personale Città aperta, Berlino, Galerie Kuhn & Partner

V. R. – I tuoi quadri sono incentrati su soggetti ricorrenti: paesaggi antropizzati e presenze umane, anche se queste sono talvolta latenti. Una costante che sprigionano le tue opere è la spiccata atmosfera onirica, una sospensione dal tempo e un’immersione in luoghi di fantasia realistica: in quale modo  definisci queste atmosfere? Considerato che gli ambienti che crei sono spesso svuotati di orpelli e figure “inutili”, come avviene la scelta di inserire nelle tue “scenografie” alcuni elementi piuttosto che altri?

C. S. – Uso pochi dettagli molti focalizzati e definiti. Non c’è mai un sovraffollamento nei miei paesaggi perché voglio creare delle atmosfere surreali, poco realistiche, con pochi elementi di disturbo e dei pochi che ci sono ognuno ha una sua funzione per evocare qualcosa, non sono mai casuali, non sono mai messi per riempire uno spazio vuoto, ma per creare un’atmosfera particolare. Non m’interessa, non mi seve inserire gli elementi decorativi realistici. Restando figurativa comunque voglio cercare di astrarmi dalla realtà. Quella che dipingo è una realtà più intima, più mentale che non fisica e tangibile. È una realtà da sogno. Spersonalizzo i luoghi reali, togliendo gli elementi che non servono, quindi se anche parto da un paesaggio riconoscibile, tendo sempre a epurarlo rendendolo uno scorcio urbano che può essere quello di qualsiasi città. Anche luci e dettagli architettonici vengono ridotti al minimo per concentrarmi più sul vuoto, per evidenziarne la sensazione straniante. Sono immagini da sogno dove contano poche cose essenziali, quelle che colpiscono la mia attenzione, sono quindi queste che io carpisco da immagini reali per farle vivere nei miei scenari onirici, accentuati ancor più dal fatto che sono quasi tutti paesaggi notturni o con luci particolari, surreali che non si capisce bene se sia aurora o tramonto. O nessuna delle due. Qualcosa di innaturale. Insomma, mai ho dipinto sole pieno con cielo azzurro. La rappresentazione realistica è qualcosa che non mi ha mai interessato.

V. R. – L’elemento umano è sempre presente anche se non è evidente o talvolta è addirittura incombente. Come in tue precedenti opere, è sempre legato al tema del disadattamento, dell’inquietudine? L’umanità nei tuoi quadri è talvolta dipinta con dimensioni spropositate piuttosto che ridotta al minimo percettibile, che significato hanno queste scelte?

C. S. – Il disagio e l’alienazione caratterizzano i miei paesaggi che sono luoghi di solitudine. La presenza antropica è sempre legata al disadattamento dell’uomo, questo è il punto focale della mia ricerca: nei luoghi che creo cerco di sottolineare con l’uso di “scenografie” essenziali il vuoto che c’è intorno alle persone, è questo che m’interessa rappresentare, aiutandomi con l’inserimento della figura umana che a volte è incombente e angosciante, altre volte quasi evanescente ma comunque presente. Come il quadro in cui un uomo, ormai lontano da chi guarda, cammina di spalle nel cuore della notte verso un orizzonte illuminato da luci di negozi che simboleggiano una consolazione, una meta effimera per chi si sente solo.
A volte anche dove non ci sono persone si percepiscono ad esempio se la figura umana non è presente lo sono invece alcuni oggetti usati e creati ad uso esclusivo dell’uomo: come un’auto dai fari accesi che lascia presagire che al suo interno qualcuno sia seduto al posto di guida. Mentre dove utilizzo l’espediente di inserire nell’opera volti grandissimi è per fissare uno stato d’animo legato a quell’ambiente, per creare un legame col luogo. È il caso di Clinic, qui l’ambientazione è una casa di cura per malattie mentali e il viso che si affaccia a tutta grandezza da una finestra l’ho tratto da una rivista di carattere medico, un volto modello stereotipato che potesse esprimere stati d’animo universali, come sofferenza e irrequietezza.

V. R. – Un altro elemento fondamentale che caratterizza i tuoi dipinti è la cromia ben connotata che contribuisce – insieme alla luce e ai soggetti – a creare le atmosfere oniriche.
Tu non lasci nulla al caso, non dipingi “di getto”, la stesura di ciascun colore è studiata, meditata per rendere l’effetto emotivo desiderato. Le tinte sono completamente alterate  anche rispetto gli spunti fotografici da cui parti, quindi trasfiguri la realtà anche nel cromatismo?

C. S. – La mia sfida è proprio riuscire a riportare sulla tela le emozioni anche attraverso l’uso dei colori in modo che trasmettano sensazioni di ansietà, di sospensione temporale, di angoscia. È questo che voglio rendere. I miei sono sempre un’esasperazione dei colori della realtà. Ti faccio un esempio: in un’ambientazione notturna  la scelta di usare per il cielo il nero puro è proprio perché mi piace esasperare molto le gradazioni cromatiche che ci sono nel mondo reale, senza mai però rendere la tavolozza troppo violenta, questa è una cosa a cui sto molto attenta. Cerco di non renderla eccessivamente forte con l’uso di colori puri, a meno che non voglia attirare l’attenzione in un punto preciso dell’ambientazione, in questi casi allora inserisco anche una tonalità pura, come quando uso il giallo per le luci dei lampioni, delle finestre, delle vetrine. Ma generalmente tendo sempre a fare molte mescole.

V. R. – Parti sempre da una base fotografica per la costruzione dei tuoi dipinti. In rari casi, come l’esempio che hai sopra citato per il volto di Clinic, usi foto trovate su riviste e giornali, ma normalmente sei tu stessa a fare fotografie ai soggetti che saranno destinati a prendere forma sulla tela. Quindi la base da cui parti è già un tuo personalissimo punto di vista. Come avviene il passaggio dallo scatto fotografico al pennello? Cosa resta delle tue foto nei dipinti? Questi si allontanano dalla realtà anche perché tu utilizzi un altro espediente: l’epurazione delle linee e la loro geometrizzazione. Parlamene un po’…

C. S. – La base fotografica è solo uno spunto, non riproduco mai una fotografia così com’è. Cerco di dare un assetto geometrico al quadro, per evidenziarne la prospettiva e il punto di fuga. A volte inserisco elementi che in foto non ci sono, in altri casi li tolgo. La fotografia è il punto di partenza della ricerca, l’inizio di un viaggio in divenire verso la creazione di luoghi fantastici che talvolta sono le composizioni di più foto, veri e propri collages che mi servono per “costruire” il dipinto. Ma anche se combino più foto insieme, il quadro sarà comunque altro, qualcosa di ancora diverso. Gli scenari sono sempre presi da fotografie che faccio personalmente. La gestazione di un’opera è spesso lunga: le idee fermentano nel tempo,  si sedimentano poi giungono a maturazione e ne scaturisce l’opera. Spesso, addirittura ancor prima di scattare la foto, ho già in testa un paesaggio ideale, vado quindi alla ricerca dell’ambiente giusto da immortalare e successivamente inizio a lavorare coi pennelli. Cerco luoghi comuni perché è la quotidianità che m’ispira, poi mi piace renderla sempre in maniera onirica. Questo è fondamentale per me, perché l’aspetto onirico è quello in cui più mi riconosco. Quindi esaspero alcuni dettagli per creare geometrie sulle tele – pur mantenendole assolutamente figurative – che contengono elementi astratti dal contesto in cui sono inseriti grazie alla geometrizzazione delle forme che non sono più riconoscibili come elementi della realtà perché li ho volutamente portati alle loro linee essenziali per trasfigurarli creando così un disagio visivo, una non-definizione del luogo. L’espediente di inserire elementi geometrici in quadri figurativi mi serve per evidenziare la lontananza dalla realtà; al tempo stesso lascio che molti altri elementi siano perfettamente riconoscibili, questo è invece per creare un collegamento col mondo reale. Ciò che sto cercando di fare ultimamente è fondere l’astratto-geometrico di alcuni particolari al figurativo, trovo interessante questa sorta di epurazione delle linee che diventano così nette, così taglienti, così fredde evidenziando stati d’animo e sensazioni di disagio e straniamento.

V.R. – Cosa vorresti che gli osservatori cogliessero delle tue opere?

C. S. – Nei miei quadri quello che vedi è la realtà “esterna” ma in effetti quello che conta non è neanche rappresentato sulla tela, va oltre proprio perché a me piace molto stimolare la fantasia di chi osserva. Più che la rappresentazione fine a se stessa, dipingere una cosa che dice già tutto, preferisco suscitare perplessità, domande, riflessioni. Ma anche chi osserva deve mettersi in gioco, deve metterci del suo. Io cerco di ispirare emozioni.

Informazioni su 'Chiara Smirne'