Alan Bennett e la sua famiglia come le altre

Che smacco, passare il confine della ragione e scoprirsi tanto banali nella follia quanto nella normalità.

E dunque, la prima cosa che viene in mente a chi di Alan Bennett ha già letto e amato altre cose - per esempio Nudi e crudiSignore e signori, oppure l'incantevole La sovrana lettrice - è  questo: non è possibile che Una vita come le altre (Adelphi) sia uscita dalla stessa penna, non è possibile che ci siano dietro la stessa vita e la stessa intenzione di scrittura.

Pensare che è inconfondibile lo stile raffinato e garbato, impastato di tante buone letture e del distacco dell'ironia. Solo che per me Bennett era scrittore tipicamente inglese anche per la capacità di sottrarre se stesso al racconto. Come se parlare di se stessi, confessare le proprie emozioni, mettersi insomma a nudo, fosse non solo imbarazzante, ma addirittura disdicevole.

Magari questo libro è stata una scelta sofferta. Oppure uno di quegli stacchi improvvisi che l'età e i fatti della vita a volte impongono. In ogni caso qui c'è tutto ciò che Bennett non ha mai raccontato: la storia della sua famiglia, che poi non è una storia straordinaria, è una storia "come le altre" appunto, eppure unica, irrepetibile. Storia dolce e dolorosa, storia di una famiglia normale in un'Inghilterra normale, il lavoro fatto con scrupolo, i sogni su misura, le aspettative mai troppo azzardate.

La storia di un padre e di una madre, di una coppia che non ha mai alzato la testa e nemmeno la voce, timida e discreta,  defilata anzi confinata in un mondo chiuso di gesti ripetuti, abitudini, diversivi nessuno.Forse oggi si direbbe che non ha mai vissuto, tanto poco si è concessa.

("Io e tuo padre inizieremo a far conoscenze" mi scrisse mamma. " Pensa: abbiamo lo sherry, e anche delle noccioline salate")

E poi la malattia mentale della madre, una lunga difficile storia che cambia tutto, o forse no, non una malattia che taglia e separa, piuttosto un fardello con cui convivere, nell'imprevedibile alternarsi di momenti sereni e di ricoveri.
  
(e ora mi si accende una lampadina pensando al Bennett autore, tra l'altro, di La pazzia di Re Giorgio: scrivendo di altro quasi sempre si scrive di se stessi)

Eppure non un libro sulla malattia e sulle penose trafile che esige dai famigliari del malato. Bennett non denuncia, non chiede compassione.

Perché nella malattia questa famiglia "come le altre" rimane se stessa, con le sue piccole grandi cose, i gesti di sempre, gli affetti tenaci ancorché tenuti a bada dalle esigenze della rispettabilità.

Come le altre, ma rimanendo se stessi, nonostante tutto. Un libro come un canto di gratitudine a quanto vale davvero la pena.

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