Arcangelo. Carte della terra, del cielo e dello spirito

di Ivan Quaroni

Arcangelo è un artista radicale. Lo è in senso letterale e testuale perché tutta la sua ricerca è fondata sul radicamento e sul senso di appartenenza, e sulla condivisione di una eredità culturale, quella sannita, che egli ha saputo estendere e trasformare, fino a comprendere i retaggi di altri luoghi e altri popoli. La radicalità del lavoro di Arcangelo ha molte sfaccettature ed è legata, in primo luogo, alla definizione di un discorso tanto preciso, quanto originale, intorno alle stratificazioni storiche, simboliche e visuali che hanno segnato il territorio geografico dal quale proviene. E tuttavia, come dicevo, questa affezione al luogo d’origine, ha saputo evolversi e trasformarsi in qualcosa di più potente e universale, generando una pittura a vocazione “globale”, popolata di suggestioni provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente, dal Mediterraneo, dalla lontana Cina e da molto altro ancora. Altrettanto radicale, però, è la scelta stilistica che ha segnato i suoi esordi.

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Il primo ciclo di opere, significativamente intitolato Terra mia, è, infatti, dominato da atmosfere cupe e drammatiche, che tracciano una linea di discontinuità rispetto alla vivacità cromatica dei conterranei esponenti della Transavanguardia, che pure, a quel tempo, si facevano latori di una riscoperta del genius loci. Con i lavori di Terra mia, Arcangelo apre un nuovo capitolo, improntato ad un forte vena biografica, dove tracce e lasciti di quella tradizione culturale si fondono al cumulo di memorie personali dell’artista, formando un amalgama iconografico in cui convergono la dimensione individuale e quella collettiva. La sua opera è definita come una sorta di antipittura, per la maggiore vicinanza alla sensibilità degli artisti dell’Arte Povera e in ragione dell’utilizzo di materiali organici, come carboni, terre, pigmenti puri. Sono opere in cui è celebrata la potenza terribile della terra, le buie profondità di antri e caverne in cui avvertiamo l’urlo di antichi demoni. Come notava la critica Annelie Pohlen, “L’opera di Arcangelo affonda le proprie radici meno nella concezione della natura come paesaggio […]che non nella natura stessa, realtà imperscrutabile” . Nel 1984, anche Maria Luisa Frisa descriveva quello di Arcangelo come un paesaggio“scarnificato al massimo, dove non troviamo nessun indugio in dolcezze naturalistiche”. Terra mia è la chiave per comprendere l’afflato fisico e sanguigno della pittura di Arcangelo, tesa a scandagliare la natura non attraverso la luce chiarificante della ragione, ma tramite un’adesione sensuale (e spirituale) all’oggetto della rappresentazione. Un ulteriore elemento di radicalità è l’uso assiduo della carta, un materiale povero, di facile reperibilità, che Arcangelo equipara agli altri supporti, conferendogli pari dignità. Le carte rappresentano, dunque, un elemento di continuità lungo tutto il percorso artistico di Arcangelo, come una sorta di filo rosso che non solo accompagna i cicli maggiori, ma addirittura genera sottocicli che affrontano aspetti della sua poetica niente affatto secondari, come i riti devozionali della penitenza e dell’ex voto.

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Questa mostra raccoglie opere su carta che forniscono una testimonianza preziosa dell’avvicendarsi dei cicli dagli anni Ottanta ad oggi: dal Terra mia ai Pianeti, dai Dogon alle Stanze dei Misteri, da Verso Oriente ai Tappeti Persiani, dai Sanniti ai Feticci, fino ai Segou, alle Case e ai più recenti Ex Voto. Il titolo della rassegna, Da Terra mia, evidenzia come quella prima serie di lavori non sia, per ammissione stessa dell’artista, “un ciclo che, spiritualmente, possa avere una conclusione, perché tratta temi che ritornano sempre come specificità caratteriali”. E, di fatto, le intuizioni germinali di Terra mia ritorneranno anche nelle opere successive al 1988, anno in cui Arcangelo passa ad una nuova fase creativa, contraddistinta da un ampliamento della tavolozza cromatica e da una visione più aperta e aerea. Fino al 1994, infatti, l’artista lavorerà alla serie dei Pianeti, dove il tema della Terra viene trasposto in una dimensione ultramondana venata di lirismo e, soprattutto, dove l’utilizzo della scrittura diventa elemento grafico pregnante, in stretto dialogo con l’impronta gestuale delle opere precedenti. Sono visioni costellate di forme circolari e fluttuanti, cosmologie che si sostituiscono alle morfologie terrestri e che rompono il rigore monocromatico. Arcangelo scopre la corrispondenza tra la terra e il cielo, dislocando le intuizioni del primo periodo in uno spazio virtualmente più ampio. In seguito ad un viaggio intrapreso in Africa nell’inverno del 1990, si interessa alle tradizioni tribali delle civiltà del Delta del Niger e, così, nascono i cicli dedicati ai Dogon e ai Lobi. Sono carte cosparse di figure totemiche e falliche, stagliate su fondali di un blu intenso. Il critico tedesco Andrea Jahn rileva subito che l’attenzione di Arcangelo per l’arte dei Dogon “è un segno del suo interesse verso fenomeni multiculturali e internazionali oltre che della sua diffidenza nell’atteggiamento fondamentalmente positivistico del pensiero occidentale” . Nonostante il cambio di soggetto iconografico, Arcangelo continua a ricercare un’adesione profonda, quasi fisica con i temi trattati. La spiritualità e il senso del sacro sono filtrati da uno stile ad alto gradiente emotivo, che nulla concede alla rappresentazione simbolica ed erudita. Arcangelo dipinge ombre spettrali, esili incubi, figure ibride e magmatiche che in seguito si trasformeranno nelle inquietanti forme dei battenti, ispirate ai suggestivi Misteri settennali di Guardia Sanframondi.

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Le opere su carta intitolate Stanze dei Misteri, segnano il ritorno dell’artista all’immaginario popolare del suo Sannio e alle cerimonie penitenziali che caratterizzano la vita religiosa del Mezzogiorno italico. La novità, semmai, è costituita dall’impianto spaziale di questi lavori, una sorta di rielaborazione della celeberrima Stanza dell’artista di Vincent Van Gogh, declinata in numerose varianti e trasformata fino ad essere irriconoscibile. Arcangelo, infatti, dispone ora le sue umbratili figure entro un teatro composto dall’incrocio del pavimento e delle pareti della stanza. Si tratta di una rappresentazione squisitamente pittorica, che diventa essa stessa un lemma della grammatica pittorica dell’artista. “La stanza è il luogo dove succede qualcosa, il posto degli accadimenti”, racconta Arcangelo, “È la cornice che accoglie le figure dei diversi cicli che si avvicendano nel tempo”. Esistono, infatti, Stanze dei Dogon, Stanze africane, Stanze dei Misteri e perfino Stanze di Terra Mia. La “stanza”, però, è anche lo scenario in cui si svolgeranno le copule amorose di Verso Oriente, una serie nata intorno al 1998 e ispirata agli Shunga dell’antico Giappone, quel tipo di stampe erotiche cui si dedicarono eccelsi maestri come Hokusai e Utamaro durante il periodo dell’espansione mercantile del Sol Levante. Per la prima volta, Arcangelo tratta un tema che esula dal background culturale mediterraneo. Anche il suo stile si adatta alle nuove iconografie e il suo tratto, pur mantenendo l’approccio gestuale, diventa lineare, quasi inciso, in conformità con gli stilemi grafici orientali. L’intero percorso dell’artista è caratterizzato evidentemente da un nomadismo culturale che lo porta ad arricchire il suo linguaggio per effetto di un continuo arricchimento del suo vocabolario stilistico.

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Il viaggio, reale o immaginato, è un concetto cardine del suo modus operandi. E, così, i cicli successivi a Verso Oriente, testimoniano questo ossessivo pendolarismo tra est e ovest, tra nord e sud del mondo. Le Anfore diventano il simbolo di un itinerario, l’oggetto di quella perpetua trasmigrazione culturale e commerciale che ha segnato la storia dell’umanità e che ritroviamo anche nei Tappeti Persiani, superfici pittoriche in cui, come scriveva Walter Guadagnini, “può annidarsi il demone primitivo, la sapienza rituale che trasforma tutti i luoghi […] in un unico, inesauribile bacino di suggestioni, di evocazioni d’originarietà prima ancora che d’immagini” . Ma il luogo d’origine resta un richiamo forte, ineludibile. Dal 2000, le opere del ciclo dei Sanniti, segnano un ritorno all’universo delle tradizioni domestiche di Terra Mia, ma con un impianto cromatico ricco e prezioso, più volte allusivo ai modi della pittura imperiale romana e della statuaria dei popoli italici. Il famoso Guerriero di Capestrano suggerisce ad Arcangelo i lineamenti delle figure, ma nelle sue intenzioni il guerriero è soprattutto una icona emblematica del carattere fiero della gente sannita. Le carte di questo periodo, in cui dominano toni caldi e terrosi, diventano un archivio in cui confluiscono tutti i segni e i pittogrammi accumulati nei passati cicli, almeno fino alla cesura temporale del 2001. Il terrorismo e il clima di tensione internazionale che segue all’attentato del World Trade Center crea, infatti, le premesse per la nascita dei Feticci, lavori, se possibile, ancora più cupi di quelli d’esordio. Si tratta di opere che riflettono la deriva umana ed esistenziale di quel periodo, il dominio dell’orrore e dello sbigottimento e la contrazione di ogni impeto espansivo. Per l’artista, queste figure di impiccati simbolizzano lo stato d’animo di un’umanità disperata e dolorante, che ha perso ogni speranza.

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Luca Massimo Barbero li descrive come figure che “formano intorno al loro apparire aure impossibili in cui il colore ha rappreso e ampliato i suoni, pensieri eterni e senza forma che avvampano e sprofondano negli occhi” . Qui, come in altre serie, Arcangelo trasferisce in pittura l’ambiguità e l’elusività del mito, per effetto del quale le immagini acquisiscono una variegata e contraddittoria gamma di possibili significati. È, innanzitutto un’abilità pittorica, che gli permette di conferire alle figure una qualità metamorfica, prismatica, in definitiva ambigua. È quanto accade nelle opere del ciclo dei Vedenti, dove sono protagonisti personaggi che incarnano i poteri magici e ancestrali dei tempi antichi. I vedenti sanniti sono i depositari di uno gnosticismo popolare, venato di paganesimo. Arcangelo li descrive così: “Sono vecchie donne, che sedevano nei vicoli della vecchia Benevento e quando ti parlavano erano capaci di guardarti dentro, di leggerti l’anima”. Tutta la pittura di Arcangelo forma una complessa mappa di riti, misteri e credenze che, pur con le dovute differenze, fanno capo ad un’unica cultura ancestrale. Per questo motivo il Sannio e l’Africa diventano spesso tropi interscambiabili, varianti diverse di una medesima cosmologia universale, che accomuna la tradizione mediterranea con quella tribale dei Dogon, dei Lobi, dei Bambara e, più recentemente dei Segou. Segou è il nome di una città situata nel sud del Mali, che un tempo è stata capitale dell’impero Bambara. Le carte che da quella città prendono il nome, introducono ulteriori novità formali nel linguaggio dell’artista. Soprattutto perché mutuano dalla natura schiettamente figurativa dell’arte africana la propensione verso una maggiore definizione di dettagli e l’acquisizione di una tavolozza più vivace, tutta giocata su gialli, rossi, arancioni.

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Sono lavori che seguono quelli dedicati al Kenya e ai suoi paesaggi rigogliosi, in cui appaiono accenni di maschere tradizionali e forme oblunghe, apotropaiche, che costituiscono una sorta di evoluzione del tema dei Feticci, ma in cui ricompaiono i riferimenti alla cultura Dogon e alle loro architetture lignee. In particolare, Arcangelo schematizza in un pittogramma a forma di “Y” le scale dei granai, su cui i Dogon usavano intagliare forme antropomorfe. Il meccanismo è lo stesso usato nel ciclo dei Misteri, dove la “M” è una sigla grafica ossessivamente reiterata, ma questa volta usata per significare il luogo di raccolta familiare, l’abitazione domestica. La casa è, infatti, un altro elemento ricorrente nelle opere di Arcangelo, cui dedica peraltro un ciclo di lavori su carta. La casa, come la terra, è il topos originario, la metafora del grembo materno, della primigenia natalità, la scaturigine di tutte le civiltà, ma è anche l’eremo spirituale e, insieme, l’ultimo rifugio accogliente di Tolkieniana memoria. Ecco, allora che, nelle carte più recenti, intitolate Ex Voto, la domus assume le parvenze di una chiesa di campagna sormontata da innumerevoli croci, che somigliano a trafitture di pugnali e, dunque, ancora una volta, a trasfigurazioni del simbolismo penitenziale. In questi lavori, contraddistinti da un’inedita levità, le ambientazioni campestri alludono ai sentimenti di una spiritualità semplice, quotidiana, che attraverso la pratica dell’ex voto testimonia la gratitudine verso il divino. Sono scorci di paesaggio ingenui, quasi infantili, sentieri e crocicchi volutamente dimentichi d’ogni regola prospettica, che producono nell’osservatore uno stato di trasognata sospensione. Arcangelo li dipinge su vecchi, delicati fogli di giornale che recano a tergo i risultati delle estrazioni del lotto, un’eredità paterna che testimonia ulteriormente il suo legame con la famiglia e con la tradizione. Gli Ex Voto sono, in fin dei conti, un saggio dell’inimitabile metamorfismo linguistico dell’artista, capace di condensare in una sola matrice grafica la chiesa e la casa colonica, la fattoria e il granaio e di catapultare su di essa tutti i simulacri della sua precedente ricerca, dalle madonne nere alle montagne sacre, dalle luminarie delle feste di paese agli otri e alle anfore della classicità e via, giù fino ai battenti, ai feticci e alle altre innumerevoli figure che costellano il suo pulsante e immaginifico universo visivo.

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