di Ivan Quaroni
Rappresentare è il problema specifico dell’arte, è tentativo di tradurre in visione non la realtà, ma una realtà, sia essa il frutto dell’esperienza sensibile o dell’intuizione intellettuale. Da sempre, e in particolar modo nelle forme più originarie come il disegno, la pittura, la scultura, l’oggetto dell’arte non è il soggetto, ma il modo stesso della rappresentazione, che è testimonianza individuale, ma anche traccia e riflesso della cultura del Tempo. Tony Godfrey ha scritto che “la pittura non è solo un modo di vedere, ma anche di costruire il proprio universo, come per i bambini plasmare oggetti e disegnare sono strumenti per comprendere il mondo”[1]. Così, attraverso le immagini dell’arte, gli artisti non hanno semplicemente espresso se stessi, ma hanno letteralmente “disegnato” i contorni della realtà in cui viviamo, cogliendo aspetti e particolari che sfuggono ai comuni strumenti di registrazione e documentazione. In quest’epoca di sovrabbondanza iconica, di ridondanza, e talvolta perfino d’invadenza, delle immagini, potremmo legittimamente chiederci quale sia la ragion d’essere dell’arte, in che cosa i suoi tropi e le sue figure divergono dalla produzione immaginifica dell’industria dell’intrattenimento, della pubblicità, perfino della segnaletica. Che bisogno c’è, insomma, di aggiungere a queste immagini quelle prodotte dagli artisti con scopi che, il più delle volte, sfuggono alla comprensione del pubblico? Qualche anno fa, nel volume Vitamin D, Emma Dexter affermava che “disegnare è essere umani”[2] perché è la più immediata forma di creazione d’immagini, quella più prossima alla sorgente dei pensieri e delle emozioni. Ancora Godfrey rileva la grande importanza della fisicità dei dipinti e dell’esperienza sensibile (e intellettuale) che ne ricaviamo. L’esperienza dell’arte è il nodo centrale della questione, il motivo che costituisce la sua necessità, perché nell’atto della fruizione da parte del pubblico, come in quello della creazione da parte dell’artista, si affastellano mille domande, mille enigmi. Più l’immagine è elusiva, più il racconto è ambiguo e più stringenti sono le domande attorno ad essi. Così, l’atto d’interrogarsi innesca il processo della conoscenza.
L’opera d’arte è un manufatto magico, un symbolon, che dischiude le porte della percezione oltre i confini abituali e produce uno scambio energetico tra l’artista e l’osservatore. Le immagini, nella fattispecie di figure, sono le serrature e, insieme, le sentinelle delle percezioni non ordinarie. Esse sono se stesse e, allo stesso tempo, sono prefigurazione di qualcos’altro. Una bottiglia per Morandi è davvero solo una bottiglia? Un dipinto di Cezanne con il Mont Sainte Victoire sullo sfondo non è forse qualcosa di più di un semplice paesaggio provenzale? E chi potrebbe affermare che il famoso dipinto di Courbet con l’anatomia in primo piano sia solo un nudo femminile? Le immagini sono simili a codici in cui sono criptati significati multipli. Per questo le arti figurative resistono all’usura del tempo. Se si limitassero a ricalcare la realtà, avrebbero ben poco da comunicarci. D’altronde, come affermava Whistler, “dire al pittore che la natura deve esser presa com’è, è come dire al pianista che può sedersi sul pianoforte”.
“Chi ha paura dell’immagine?” è un titolo forse un po’ provocatorio, un’affermazione in forma di domanda retorica. Una presa di distanza da una certa astenia figurativa, che affligge le frange più concettuali del sistema dell’arte. Frange che, in genere, prediligono forme ed espressioni più compite e, diciamo pure, meno ridondanti. Qui, invece, sono proposti i punti di vista di artisti che, pur diversi per generazione, gusto ed estrazione culturale, si esprimono attraverso linguaggi schiettamente figurativi.
È una pittura che sorge dalla dimensione progettuale quella di Gabriele Arruzzo, il quale vincola l’esecuzione a un’idea precedentemente formulata, in cui fa convergere immagini e figure già sovraccariche di significati. Procedendo per accostamenti e sovrapposizioni di elementi storicamente e sintatticamente discontinui, Arruzzo assume l’arduo compito di generare, ab antiquo, nuove identità visive. Il suo procedimento, simile alla mise en abîme, trasforma il dipinto in un ipertesto visuale, che raccoglie e rimanda molteplici sollecitazioni, generando episodi che si perdono l’uno nell’altro, senza soluzione di continuità.
Simultanea, ma in maniera del tutto diversa, è anche la pittura di Agnese Guido, rapida e veloce nel tratto, quanto fulminea ed efficace nell’enunciato. L’artista sospende figure leggiadre ed evanescenti, tracciate con studiata parsimonia, su fondi di tenebre, come se si trattasse di fugaci visioni. E il modo è, infatti, quello enigmatico della manifestazione epifanica, della figura miracolosa e profetica, che squarcia il lugubre velo notturno con sinfonie di bianchi, gialli e rosa, che illuminano episodi sibillini. Sono narrazioni rapide, repentine, tanto veloci a farsi, quanto durature nella memoria eidetica dell’osservatore.
“Maestro di visioni”, è proprio il caso di dirlo, è Matteo Guarnaccia, artista, illustratore, performer e scrittore attivo fin dagli anni Settanta. Guru dell’arte psichedelica e con un pedigree culturale di tutto rispetto (fu autore della rivista eliografica Insekten Sekte, collaboratore della rivista Re Nudo e autore di numerosi titoli per la casa editrice Castelvecchi), Guarnaccia ha prestato i suoi inchiostri al fumetto, alla musica, alla poesia, al teatro, alla poster art, grazie ad uno stile originale, che fonde le immagini in un vitale caos metamorfico. Disegna, infatti, storie magmatiche, animate da figure ibride, colte in un processo di continua trasformazione. Figure che, come i grilli della tradizione medievale, assommano sembianze umane, animali e vegetali, ma dialogano anche con le forze primarie dell’universo, in un reciproco, e amorevole, scambio di fluidi, energie e rivelazioni.
Multidisciplinare è anche l’attitudine di Elena Rapa, dedita alla pittura, così come al fumetto e all’illustrazione. Dalla contaminazione di questi differenti linguaggi, nasce, infatti, uno stile spurio, di difficile definizione, che ha più di un punto in comune con le ricerche americane di marca lowbrow, pur mantenendo uno specifico carattere italiano. Rapa oscilla tra utopia e distopia e, così, fabbrica visioni in bilico tra fiaba e incubo, talora disegnando paesaggi fantastici, disseminati, per dirla con Baudelaire, “di strani fiori, dischiusi per noi sotto cieli più belli”, talaltra dipingendo personaggi mostruosi e ipertrofici, sullo sfondo di scenari apocalittici.
Quanto a scenari apocalittici, incubi e teorie della cospirazione, nessuno è pari ad Arcidiacono, anch’egli con un background d’illustratore, ma oggi prolifico vessillifero di una pop art distopica e contestataria, che registra le ansie e le inquietudini, ma soprattutto le manie e le paranoie della società globalizzata. La dietrologia, nel suo caso, è un modo di essere, una seconda natura. Tanto che, a essere “dietrologico”, non è solo il suo approccio ai temi (spesso desunti dalla letteratura di genere), ma perfino il suo modo di dipingere. La sua è, infatti, una pittura retro-dipinta su differenti lastre di plexiglas e, dunque, una pittura che implica, almeno in fase compositiva, un posizionarsi dell’artista dietro, anziché davanti all’immagine, con tutte le implicazioni tecniche, ma anche simboliche che questo comporta.
Introspettiva e autoreferenziale è l’arte di Silvia Argiolas, che tramuta paranoie, ansie e segrete pulsioni in una pittura visionaria ed enigmatica, accordata su toni acidi e registri espressionistici. Mescolando pennellate rapide e gestuali a interventi più dettagliati e descrittivi, l’artista costruisce una geografia astratta, in cui la natura assume le sembianze di paesaggi allucinati. Nel suo universo desolato, insieme disperato e struggente, si muovono spiriti vendicativi e violente incarnazioni, diaboliche personificazioni di sentimenti e impulsi che popolano la dimensione più profonda e antica della psiche umana. Nell’installazione intitolata “I miei punti deboli gialli”, per la prima volta, l’artista immerge le sue figure, inquiete e grifagne, in un’aura aspra e scabra, dai toni quasi lisergici.
La grande pittura del passato rivive nei modi di Giuliano Sale, che si accosta alle atmosfere dei maestri dell’Ottocento e del Novecento con una sensibilità contemporanea, volta a indagare la dimensione umbratile e crepuscolare dell’uomo. Come già altri artisti contemporanei – da John Currin a Michaël Borremans fino a Lucian Freud – Sale ripercorre i generi del ritratto e del paesaggio, inscenando, con uno stile sicuro e rigoroso, ricco di suggestioni chiaroscurali, racconti bislacchi e raccapriccianti. E così, la percezione dell’attuale stato di deriva morale e spirituale, s’incarna nella perturbata raffigurazione di personaggi sinistri e cupe ambientazioni.
Riflette sul valore del segno e sulle potenzialità insite del linguaggio pittorico Giuliano Guatta, artista che rifiuta la narrazione lineare per concentrarsi sull’annotazione di eventi e accadimenti quotidiani, sintetizzati nella raffigurazione simultanea di gesti e movimenti. Per Guatta la pittura (come pure il disegno) è il luogo in cui convergono memorie, cronache, visioni, è strumento per registrare, con precisione sismografica, le esperienze reali, ma anche lo spazio in cui verificare il processo di formazione delle immagini, attraverso quello che lui stesso ha definito “un principio di affermazione-negazione” del racconto.
Immediato e diretto è l’approccio di Sandra Virlinzi, artista residente a New York che negli anni Novanta ha militato nel gruppo Ultrapop e poi ha esteso la sua azione alla realizzazione di video-animazioni, ceramiche, arazzi, stampe su tessuti e pupazzetti, seguendo l’esempio di quei pop surrealisti americani che, senza sensi di colpa, non disdegnano di dedicarsi alle arti applicate. L’opera intitolata Robot Souls è un saggio del suo stile più recente, più sporco e impreciso rispetto al passato, e quindi meno aderente ai dettami dell’illustrazione pop.
Lo scultore Diego Dutto s’ispira alla grazia affusolata dei bolidi da corsa, eppure il suo stile ha poco a che fare con la subcultura della custom art e delle hot rods. Figlio, piuttosto, dell’estetica post-human teorizzata negli anni Novanta da Jeffrey Deitch, l’artista fabbrica oggetti in cui forme naturali e parti meccaniche si saldano in futuristiche nuove identità. Le sue sculture sembrano, infatti, il prodotto di un design avanguardistico e di una tecnologia aliena, ma i soggetti sono spesso desunti dal mito oppure dall’osservazione del mondo animale o dell’anatomia umana.
Un altro genere di metamorfosi è, infine, quella inseguita da Fulvia Mendini, pittrice e scultrice che integra le intuizioni del design postmoderno in un linguaggio visivo semplice e raffinato, colmo di preziosismi e citazioni. Se i suoi ritratti diafani e stilizzati rimandano al pop algido e aristocratico di artisti come Alex Katz e Julian Opie, le sue sculture spesso danno vita a nuove specie di fiori e uccelli. Farfa, opera tributo all’omonimo poeta e pittore futurista sanremese, è, infatti, la sagoma di un uccello fantastico, una sorta di chimera in cui convivono idealmente forme animali e vegetali.