Elisabeth Scherffig. Memorie dal sottosuolo (reprint)

di Ivan Quaroni

Nella ricerca di Elisabeth Scherffig si avvertono i segni di una forte predisposizione verso la trasfigurazione o l’alterazione del senso ordinario dell’immagine. Partendo dalla realtà, o meglio da una porzione specifica della realtà fenomenica – quella dei cantieri in allestimento o in disfacimento – Elisabeth Scherffig ci conduce attraverso una metamorfosi semantica e segnica che assume le sembianze di una discesa labirintica nel ventre oscuro del sottosuolo, che è anche evidente metafora del buio interiore.

Leggere il suo lavoro unicamente come l’ennesima testimonianza delle trasformazioni e delle lacerazioni del paesaggio urbano post-industriale significa limitare l’indagine a un livello superficiale. Livello che è, per antonomasia, antitetico all’inclinazione sia intellettuale che figurale dell’artista. Non si possono in alcun modo equiparare i disegni dell’artista tedesca con le ricerche figurative che, specialmente nello scorso decennio, hanno caratterizzato larga parte della produzione pittorica italiana.

Dinnanzi ai suoi spaccati di discariche e accumuli di materiale edilizio, ispirati alle vedute degli squarci che ogni giorno si aprono e si chiudono nell’epidermide delle città occidentali, la vista reagisce in modo singolare, quasi fosse assorbita nelle maglie di un tracciato di segni che disorienta, provocando un leggero senso di vertigine e di smarrimento del senso dell’orientamento. Elisabeth Scherffig cattura un frammento significativo del tessuto urbano, ma lo struttura in modo personalissimo, sfigurando l’immagine di partenza con un gesto osessivamente calligrafico, tanto da rasentare l’horror vacui.

Senza titolo, 2005 Carboncino su carta, 60 x 80 cm

Senza titolo, 2005 Carboncino su carta, 60 x 80 cm

Dei cantieri, l’artista ci mostra solo porzioni circoscritte, spesso prive di orizzonte e, così, riesce nell’operazione concettuale di decontestualizzare il soggetto. Se perdiamo di vista l’ambiente, l’aria, il pulviscolo di queste zone in continua trasformazione, smarriamo il senso dinamico e vitale dei cantieri. Essi diventano immense sculture, le cui vaste superfici si offrono allo sguardo dell’osservatore solo in parte. Nello specifico, gli accumuli di ferro e legno, gli scarti cementizi, i pannelli divelti, le immense sezioni di tubi e tutti gli altri indefinibili residui, si uniscono a formare un quadro quasi astratto, che ha con la realtà un rapporto unicamente semantico. Gli oggetti, i materiali sono quelli appartenenti al mondo di superficie, ma il modo della rappresentazione ne altera sostanzialmente il senso.

L’artista disegna i suoi cantieri con pastelli monocromi, calcando i suoi segni sulla carta e modulando linee e curve con pazienza certosina, senza peraltro avere la possibilità di sbagliare e quindi di cancellare e correggere l’esito dei suoi interventi. Costruendo la figura con calligrafico puntiglio, intuendo, quasi con preveggenza, i punti d’incidenza della luce e gli addensamenti d’ombra, Elisabeth Scherffig sconfigge la prosaicità dell’immagine iperreale. La sua fedeltà al dato fenomenico e tangibile è solo apparente, poiché il gesto e il segno, ma anche il colore, quel misto di terra bruna e ruggine dalle qualità metalliche, contribuiscono ad occultare la mimesi, fornendo all’immagine una nuova dimensione percettiva. Osservando i disegni dell’artista, infatti, siamo tentati di perderci come in un labirinto. Se spostiamo il nostro punto di vista rispetto alla posizione centrale, vediamo le masse e i pesi ridefinirsi. Alcuni particolari sembrano fuoriuscire tridimensionalmente dal quadro, come in certe anamorfosi rinascimentali. Luci e ombre acquistano mobilità, per effetto di un segno che appare inafferrabile nelle sue tortuose evoluzioni. Insomma, le opere di Elisabeth Scherffig non si esauriscono al primo sguardo, ma dispensano, lentamente, molteplici possibilità interpretative, quasi a rimarcare che la pittura, oggi, necessita di un tempo ben diverso da quello richiesto dalle immagini consumabili (e consumate) dei media.

Quelle della Scherffig sono, invece, immagini che favoriscono un senso di momentaneo smarrimento, perché costringono lo sguardo ad abbandonare il senso complessivo del soggetto per addentrarsi nei meandri dei particolari, muovendo l’occhio tra le sinuose circonvoluzioni delle armature edili, nelle pieghe delle lamiere, dentro buchi bui e profondissimi. Per dirla con Aldous Huxley, le sue opere dischiudono le porte della percezione, accompagnandoci in una discesa negli inferi dell’architettura e dell’urbanistica. Tuttavia, il sottosuolo di Elisabeth Scherffig non è solo quello fisico, reale e tangibile della città, ma quello potenzialmente infinito della psiche umana o dell’anima.

Senza titolo, 2006 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

Senza titolo, 2006 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

A tale proposito, Gillo Dorfles menziona con ragione il famoso acrostico alchemico (VITRIOL), quel Visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem, che allude alla scoperta di un universo interiore che corrisponde alla struttura di quello superiore. “Come in alto, così in basso”, identità arborea tra le radici e i rami, è anche la formula liturgica cristiana del “Come in cielo così in terra”. Lo conferma l’attenzione dell’artista verso la dimensione verticale dell’architettura, che accanto a quella ctonia delle fucine edili, ricompone la speculare identità tra l’alto e il basso. Tuttavia, mentre negli spaccati di cantieri abbandonati o dimessi il sublime post-industriale viene ricondotto a una dimensione di organicità tecnologica, dove dominano forme flessuose e irregolari, nel dialogo con l’architettura, la Scherffig ritrova la dimensione aurea della geometria, l’impianto cartesiano di ascisse e ordinate che s’incrociano nelle scansioni ritmiche delle impalcature e dei muri portanti, delle travi e delle putrelle. Un esempio significativo di questa tensione apollinea è nei disegni che fotografano diversi momenti della costruzione della Berlin Hauptbahnhof, nuova pietra miliare dell’infrastruttura ferroviaria tedesca.

Qui, nell’horror vacui, che è caratteristica costante dello stile dell’artista, appaiono spiragli di luce a rischiarare il disciplinato assetto degli spazi e dei materiali. Il chiarore solare (o crepuscolare) filtra attraverso la copertura delle volte vetrate e tra le gabbie dei ponteggi, quasi fosse un’epifania, una rivelazione spirituale. Architetture e cantieri corrispondono, metaforicamente, alla polarità tra ordine e caos, tra creazione e distruzione quali elementi della incessante, metamorfica vitalità dei manufatti umani.

Senza titolo, 2007 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

Senza titolo, 2007 pastello su carta Arches, 120 x 80 cm

Quando affermiamo che Elisabeth Scherffig ha una propensione verso la trasfigurazione, intendiamo anche dire che la sua arte corre sul sottile filo che separa la figurazione dall’astrazione. Nei suoi disegni la macroscopía figurativa dell’immagine si sovrappone alla microscopía astratta del segno, in un bilanciamento che schiude nuove possibilità di lettura. Basti guardare alle nuove sculture di porcellana, sulle quali la Scherffig traccia un reticolo di linee che la cottura rende quasi incomprensibili. I rilievi che percorrono le sottili superfici bianche sembrano una trascrizione o traduzione delle immagini in linguaggio braille. In realtà, vi si possono riconoscere sezioni di piante e alzati architettonici, mescolati con le caotiche linee organiche dei cantieri. Nel complesso, però, le porcellane dell’artista rappresentano un’ulteriore incursione nei territori formali dell’astrazione, laddove il segno diventa elemento autoreferenziale e tautologico, idealità apollinea, in contrapposizione al disordine dionisiaco degli edifici in demolizione. Gli accumuli caotici, infatti, sono il limine del regno delle ombre, della caverna platonica.

Ultimo ingresso all’Interiora Terrae è pure la Brocca rotta, una scultura che potrebbe essere un gigantesco rozzo calice (allo stesso tempo Graal e Occultum Lapidem) oppure una vera da pozzo. In entrambi casi una soglia, varcata la quale, inizia la discesa.

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