Indubbiamente, sono due gli elementi fondanti della ricerca di Fulvia Mendini. Il primo, ed anche il più importante, riguarda la costruzione di un linguaggio formale semplice, ma allo stesso tempo sofisticato, costituito dall’uso di una pittura piatta, priva di sbavature e imperfezioni. L’altro aspetto dell’indagine dell’artista, forse più velato, ma non meno incisivo, concerne la creazione di un fitto reticolo di rimandi culturali ed estetici, che agisce sullo spettatore come un intrigante sottotesto visivo.
Sul primo aspetto mi sono più volte soffermato[1], sottolineando che la grammatica stilistica di Fulvia Mendini, in particolare quella applicata alle composizioni più astratte, come ad esempio i mandala, funziona esattamente come un alfabeto di segni, suscettibili di molteplici variazioni e combinazioni. In questo linguaggio, insieme sintetico e ornamentale, lineare e ipercromatico, si avverte il lascito di numerosi influssi, dalle Arts and Crafts vittoriane agli alfabeti astratti di Kandinsky, dalla miniatura tradizionale indiana alla pittura di genere del Settecento, su fino a Victor Vasarely e al lessico “familiare” dell’Atelier Mendini. E poi, ancora, il preziosismo tardo gotico di Carlo Crivelli, lo stile acuminato e minerale di Cosmé Tura, le figurine di Pietro Longhi, le tavole naturalistiche di Ulisse Aldrovandi, le stampe di Hokusai, ma anche i pattern prestampati sui tessuti e le texture dei capi d’abbigliamento griffati, le illustrazione per l’infanzia e la più moderna computer grafica, il tutto masticato, digerito e riproposto dall’artista sotto forma di raffinate citazioni e di sottili allusioni. Ed è proprio questa restituzione velata di rimandi e di richiami ad un patrimonio estetico “colto”, l’altro fattore decisivo della ricerca di Fulvia Mendini, che introduce, accanto alla seduzione delle forme e dei colori, un elemento di attrattiva intellettuale.
Con le dodici tele di Orange Blossom, Fulvia Mendini torna al ritratto, un genere che aveva accantonato dopo il 2005 per sviluppare altri filoni di ricerca, legati alla sperimentazione di nuove tecniche e all’applicazione di materiali inediti, dagli arazzi realizzati con tessuti tagliati al laser e termosaldati su tele di cotone a quelli ricamati artigianalmente, dalle stampe lambda su alluminio al grande tappeto intrecciato a mano in una bottega di Katmandu (Wedding, 2007), fino alla video animazione computerizzata intitolata Mandala wedding (2007).
I nuovi ritratti della serie Orange Blossom sono un’evoluzione di quelli eseguiti nel 2005. Mentre quelli di Wonderland, infatti, rappresentavano personaggi singoli, dipinti su spesse tavolette di legno alla maniera delle icone bizantine, le opere di Orange Blossom, realizzate su tela, introducono eloquentemente il tema dei legami sentimentali e amorosi, anticipato, a suo tempo, nell’opera intitolata Les Fiancés, che “chiudeva” emblematicamente la mostra del 2005. In verità, il tema nuziale costituisce per l’artista una sorta di fil rouge, che ha attraversato la sua produzione recente, senza peraltro essere mai debitamente approfondito. Orange Blossom è il fiore d’arancio che tradizionalmente la sposa porta nel giorno delle nozze come simbolo di purezza. L’artista lo usa, dunque, come un riferimento diretto al tema degli sponsali, metafora inclusiva di tutti i tipi di unione. Al centro di tutto c’è la coppia, nucleo primordiale e insieme struttura archetipica delle relazioni umane. Con l’assoluta infedeltà mimetica e anatomica che contraddistingue il suo stile, Fulvia Mendini ci offre dodici variazioni sul tema, dodici coppie di giovani allampanati, caratterizzati da un espressività allucinata davvero sopra le righe. Sguardi spiritati e anatomie ipertrofiche, a cominciare da quei colli indecentemente oblunghi, figli degeneri delle estensioni di Parmigianino, ma soprattutto di Modigliani, i personaggi della Mendini sembrano imprigionati nella gabbia dei ruoli, vittime inconsapevoli delle convenzioni sociali. Tra i componenti di ogni diade si erge un’impenetrabile muro invisibile, che isola le figure in uno spazio virtualmente chiuso al dialogo. La prossimità fisica degli individui non si traduce, quindi, in contiguità emotiva, dandoci piuttosto l’impressione di una convivenza forzata. Sembra quasi che l’artista voglia celare dietro l’apparente leggerezza di quei volti candidi, una critica al modello sociale rappresentato dalla coppia. Il matrimonio è il tema dominante della mostra, ma a giudicare dalle espressioni dei fidanzati, congelati in un attimo di eterno sbigottimento, sembra piuttosto la paura il sentimento dominante. In verità, le espressioni sono ambigue, impenetrabili, sempre in bilico tra un sentimento e il suo opposto. Tra la meraviglia e l’orrore, tra il panico e l’estasi lo slittamento è minimo. Lo stesso dicasi per i generi maschile e femminile, che in questi ritratti, sospesi tra la levità dei personaggi di Alex Katz e il fascino nevrotico di quelli di Martin Maloney, si confondono in un’unica fisionomia efebica, caratterizzata da una tipizzazione anatomica più prossima ai modelli dei cartoni animati che a quelli della vita reale. Colli oblunghi, occhi grandi, bocche innaturalmente regolari, i volti dipinti dall’artista soccombono al dominio della geometria, ma per non della simmetria. Se non fosse per l’abbondanza di accessori, che distingue un personaggio dall’altro, faremmo fatica a distinguerli. “In questi visi”, racconta l’artista, “mi interessa sintetizzare i tratti al massimo e disegnare un personaggio icona, un prototipo estatico”.
Sono, infatti, i vestiti, i cappelli, i gioielli, le acconciature a fare la differenza, tanto da indurci a credere che i ritratti non siano altro che un pretesto per inscenare, ancora una volta, lo spettacolo di un arte che riporta in primo piano il piacere dell’ornamento, della decorazione, del dettaglio prezioso. Un arte femminile, che funziona come un ipertesto visivo, un condensato di allusioni colte e di accenni a particolari radicati nella memoria biografica dell’artista. Il dubbio, insomma, è che protagonisti di queste opere siano soprattutto i disegni delle trame e degli orditi sugli abiti, i raffinatissimi accostamenti cromatici e poi le numerose citazioni, disseminate qua e là come una spezia aromatica. Cosi, se ne Le mille e una notte la cravatta dell’uomo è un omaggio allo stile optical di Victor Vasarely, nell’opera intitolata L’infinito, il vestito della ragazza richiama l’ossessione per i pois dell’artista giapponese Yayoi Kusama. William Morris è, invece, l’autore del decoro sull’abito smanicato di Ti penso sempre, dove gli orecchini della donna sono, appunto, viole del pensiero. Il gioco dei rimandi, però, non si limita ai richiami storico-artistici, ma investe, come già nei ritratti precedenti, anche l’alta moda. La ragazza di Verdeliò, di fatto, veste un abito di Antonio Marras, mentre i motivi dei vestiti femminili in Ascot e Anacapri, ma anche nel già citato Le mille e una notte, riprendono disegni realizzati negli anni Sessanta dalla madre dell’artista. L’eleganza maschile, più sobria, passa attraverso riferimenti meno eclatanti per quanto riguarda le griffe, ma i dettagli dei colletti delle camicie ricordano, in più di un’occasione, le opere di Domenico Gnoli. Non mancano, invece, le autocitazioni, le riprese di alcuni ingredienti tipici del suo alfabeto iconografico, come gli uccelli, gli insetti, la stella e il ramo di ciliegio, usati istintivamente come elementi di raccordo tra le figure.
Le suggestioni, tuttavia, non finiscono qui, riverberando anche nei titoli dei dipinti, che spaziano dalla citazione cinematografica di Mullholland Drive e Tokyo Ga, due pellicole di registi di culto come David Lynch e Wim Wenders, a calembour e rimandi di matrice letteraria, come in William e Juliet, che mescola il nome del grande Bardo inglese con quello di uno dei suoi più noti personaggi drammatici, o come L’infinito, che rimanda ai versi leopardiani, amplificando l’atmosfera cosmologica del quadro, l’unico nel quale lo sfondo uniforme è sostituito con l’ambientazione di un notturno cielo stellato. Per finire c’è Orange Blossom, uno dei quadri più emblematici della mostra, dove l’autocitazione è duplice. Il medaglione appeso al collo eburneo della ragazza riprende un motivo disegnato da Fulvia Mendini, il fiore d’arancio, appunto. Lo stesso che compare sull’anello aureo disegnato dall’artista e prodotto, per l’occasione, in un unico esemplare con pietre del laboratorio di oreficeria “Le Sibille” di Roma. Il gioiello, realizzato con la tecnica del micromosaico di tradizione antico-romana, oltre ad essere un oggetto di squisita fattura artigianale, è soprattutto un simbolo, ad un tempo sigillo e vincolo della utopica unione di uomini e donne.
[1] Si vedano i testi Wonderland e In-A-Gadda-Da-Vida, pubblicati rispettivamente nei cataloghi delle mostre “Wonderland”, presso la Galleria delle Battaglie (Brescia, dicembre 2005) e “Viridarium”, presso Byblos Art Gallery (Verona, gennaio 2007).