di Ivan Quaroni
“Non c’è quindi alcun ente artificiale che abbia il suo fondamento fuori della natura.”
(Giordano Bruno)
Non è necessario conoscere in profondità la cultura cinese per apprezzare le opere di Liu Rouwang. Benché profondamente radicate nell’immaginario tradizionale della sua terra, infatti, esse possiedono un’energia e una forza che le rende comprensibili a chiunque. In parte, anche per via di una tendenza al gigantismo che conduce l’artista a concepire opere di grandi dimensioni, capaci, cioè, di polarizzare l’ambiente e lo spazio attraverso una narrazione semplice e sublime, che adatta i toni epici del mito nel contesto dell’odierna civiltà globalizzata.
Chi ha avuto la fortuna di vedere Black Wolves, un branco di quasi cento lupi in ferro a grandezza naturale e con le fauci spalancate e sanguinanti sa che cosa intendo. Quell’installazione, esposta nel Padiglione San Marino alla Biennale di Venezia del 2015 e nello stesso anno anche all’Università di Torino (grazie alla collaborazione con l’Istituto Confucio), mostra alcuni dei caratteri tipici della scultura di Liu Ruowang: l’impatto scenico, la tensione drammatica, il dinamismo, ma anche una certa solennità. Tutte qualità che l’artista ottiene attraverso un linguaggio plastico personale, che scarta la fedeltà mimetica a favore un’espressività che fa largo uso della deformazione.
Si tratti di branchi di lupi famelici, come quelli di Black Wolves e dell’antecedente Wolves Coming, oppure di una schiera di primati che sembrano fuoriusciti da una sequenza del Pianeta delle Scimmie, come nel caso di Original Sin, o, ancora, di combattenti placidamente assorti in meditazione (Melody) e vendicatori celesti che demoliscono le moderne armi di distruzione di massa (Heavenly Soldiers), gli ipertrofici soggetti scolpiti da Liu Ruang hanno qualcosa di fantastico e fiabesco. Forse perché, fin da bambino, nel villaggio di Jia, situato nel nord della provincia dello Shanxi, regione montuosa attraversata dal Fiume Giallo, Liu Ruowang era solito ascoltare i racconti del nonno, storie di monaci e guerrieri, maghi e briganti tratte dai classici della letteratura cinese. Come, ad esempio, Il romanzo dei Tre Regni, con le cronache storiche della fine della dinastia Han (220 d.C.); Il viaggio in Occidente, che racconta il pellegrinaggio del monaco Sanzang in compagnia del re delle scimmie Sun Wukong, del maiale Zhu Wuneng e del demone fluviale Sha Wujing; infine I Briganti, epopea sulle avventure di una banda di fuorilegge che difendono i deboli e gli oppressi dai soprusi dei potenti.
Accanto ai quattro grandi romanzi della tradizione cinese (l’ultimo, ambientato nel XVIII secolo, s’intitola Il sogno della camera rossa) un’altra importante fonte d’ispirazione per Liu Ruowang sono stati i fumetti del fratello maggiore, che finalmente davano un volto ai protagonisti dei racconti del nonno. Sono stati, dunque, la storia, la mitologia e il folclore ancora vivi nella comunità rurale di Jia a plasmare l’immaginazione del giovane Liu Ruoang, incutendogli un profondo rispetto per guerrieri ed eroi leggendari.
Più tardi, con la frequentazione della Central Academy of Fine Arts di Pechino e il conseguente trasferimento nella capitale, su quell’immaginario si sarebbe innestata una coscienza artistica sensibile ai problemi della società contemporanea, dominata dal progresso scientifico e tecnologico, ma sempre più in conflitto con l’ordine naturale.
Il sentimento di una natura offesa, ferita dalle profonde alterazioni recate all’ecosistema da un incontrollabile processo di antropizzazione, si avverte in molti lavori di Ruowang dedicati al mondo animale.
Al di là d’ogni facile metafora, infatti, è evidente che i furiosi branchi di Black Wolves e Wolves Coming possono essere interpretati come la rappresentazione della dura risposta della natura alle devastazioni compiute dall’uomo. Così come i giganteschi primati di Original sin, schierati in fila e con gli occhi rivolti al cielo in una sorta di muta preghiera, sono simboli di un’umanità originaria, non ancora corrotta dalla civilizzazione. E che dire poi delle sculture dedicate al Dodo, il buffo colombiforme estintosi a causa della distruzione del suo habitat da parte dei coloni olandesi e portoghesi?
Non ci sono dubbi sul fatto che tutta l’opera di Ruowang sia percorsa da una sottile linea critica nei confronti di un mondo votato all’autodistruzione. Un mondo, ora più che mai, bisognoso di esempi positivi, di eroi come i saggi e guerrieri dei cicli Heavenly Soldiers, Melody e Legacy, ma anche di creature fiere e selvagge come quelle che abitano le grandi tele dell’artista. Liu Ruowang, infatti, non è solo uno scultore, ma anche un pittore con una spiccata propensione verso le grandi dimensioni.
Nelle sue tele i ritratti in primissimo piano di scimmie, leoni e leopardi si alternano a scene che ritraggono gli animali immersi in una natura selvaggia e insieme sublime. Come nelle sculture, anche nei dipinti l’espressività prevale sulla fedeltà mimetica e la verosimiglianza cede il passo alla potenza dell’immagine. Le colossali teste monocrome d’animali sono rese con una pittura fatta di pennellate spesse e dense, che tratteggiano le fisionomie in modo rapido, quasi per consentirne la visione a distanza. Le misure delle tele Ruowang variano, infatti, da un minimo di due metri d’altezza fino a oltre tre metri e mezzo. Le sue sono, dunque, immagini volutamente ipertrofiche, che servono come un disperato, ultimo richiamo alla salvaguardia ambientale del pianeta. Le loro dimensioni suggeriscono l’idea che il problema non è più ignorabile. Gli animali, perfino quelli più feroci, diventano, quindi, gli emblemi di un mondo puro e incontaminato che sta per scomparire, depositario di valori che, esattamente come i miti degli eroi, non appartengono più alla nostra epoca.
La pittura di Liu Ruowang è inscindibile dalla sua scultura dal momento che sia l’una che l’altra trasmettono gli stessi messaggi con linguaggi solo apparentemente diversi. Come giustamente notava il critico d’arte Wang Chunchen, “la forma è al servizio del contenuto […], ma il contenuto deve provenire dall’interno dell’artista, invece di essere imposto all’artista dall’esterno”.[1] Cosa senz’altro vera nel caso di Liu Ruowang, dato che in tutta la sua opera non si ravvisa nessuno degli elementi di sofisticazione che abbondano invece nelle creazioni di tante superstar dell’arte contemporanea. Nonostante il regolare percorso accademico e il contatto diretto con l’artefatto mondo dell’arte contemporanea, Ruowang ha dimostrato di essere rimasto fedele all’ideale di un’arte nobile, insieme colta e popolare, capace di raggiungere il cuore di tutti gli uomini. Proprio come quei fumetti su cui l’artista ha imparato a disegnare gli eroi di un mondo che non c’è più.
[1] Wang Chunchen, A Historical Narrative from Visual to Tactile Sensation, in Sculpture Works of Liu Ruowang, 2014, p. 82.
Info:
Liu Ruowang
Lorenzelli Arte
C.so Buenos Aires 2, Milano
Opening: giovedì 29 marzo 2018