di Ivan Quaroni
Guardo le cose di Icaro senza pregiudizio, con “ignoranza”. Ignoro il chi, il come, il quando, il dove. Sono osservatore diretto, tabula rasa. L’informazione viene dopo lo sguardo, dopo l’esperienza, quasi per provare la “tenuta”, la forza e l’energia delle cose quando non se ne sa niente. Ed è un test universale, una prova del fuoco. Se annulli il fattore cognitivo, quello intellettuale, sei obbligato a fare una fenomenologia, a ricostruire dal nulla. Anche se quel “nulla” riguarda solo l’arte, la sua storia, i suoi movimenti.
Vedo le cose di Icaro per la prima volta (o quasi). Vedere significa accorgersi di qualcosa, aprire una porta. Nelle sue cose c’è un abbracciare, un avvolgere, un accogliere, ma anche un respingere, un ferire, un contrapporre. C’è un girare attorno alla conoscenza pregiudiziale, uno schivare i preconcetti, reinventando i termini della geometria delle figure piane e dei solidi. I cubi sono ingannevoli, hanno angoli cedevoli, mutevoli. Le linee rette hanno troppa materia, troppa sostanza e allora Icaro ne aumenta la tensione, ne assottiglia le estremità, quasi ad esaudire quel desiderio, tutto astratto, di tornare alla matrice, al punto da cui tutto trae origine. Eppure lo spazio della retta non è più compreso tra due punti, ma tra due punte. Non è la stessa cosa. Il punto concerne lo spazio quanto la punta concerne l’uomo. La punta utensile, la punta arma, la punta polo d’attrazione magnetica. L’uomo, ecco il punto. La pietra di paragone.
Qual è il fondamento della scultura? Non è lo spazio, non il tempo, non la materia. Il fondamento è l’uomo, l’artefice e il beneficiario. Non si è mai sentito parlare di una scultura per gli angeli, per gli Dei, per gli alieni. Ci sono sculture d’angeli e di Dei (persino d’alieni), ci sono omaggi ed ex-voto. Ma sono per gli uomini. Nella scultura, Icaro cerca l’uomo che è. Il suo essere forma e proporzione, il suo essere molle, fendibile, feribile. I suoi punti zenitali, i suoi nadir misurano la sua scultura. O è la sua scultura che li misura, nella forma di una minaccia potenziale. Ci sono linee di acciaio ramato e fili di alluminio che si possono avvolgere intorno ai suoi piedi o alle sue braccia. Ci Sono strutture metalliche che vestono come elmi puntuti, altre che percorrono il midollo, giù fino allo scroto. Ma tutte sono a misura d’un solo uomo, per una sola pietra di paragone.
Ciascuno fabbrica la sua prigione e, fuori delle sbarre, l’universo che lo attende. Icaro ha fabbricato prigioni temporanee, feritoie troppo aperte per lui. Sono luoghi, le prigioni, in cui qualche volta ci capita d’entrare. Non è mica detto che non ci si possa uscire. Dipende dai punti (ancora) di vista, dalla prospettiva, che può essere accelerata, assottigliata per l’effetto di un angolo specchiante. Si può entrare e uscire dalle cose, come dalle prigioni. Due boccole incassate nel muro su due pareti opposte, allineate in perfetta simmetria, sono come due porte che idealmente attraversano tutto il globo, due poli, due orifizi. Un ano e una bocca, due ani, due bocche…come vi piace.
Tutte le cose sono misurabili, quantificabili, ma anche relative. Mi piacerebbe conoscere l’uomo che ha prestato il piede o il pollice agli inglesi perché ne facessero una misura. La loro misura. Conoscere il metro non è affatto affascinante, deve aver pensato Icaro. Così si è fatto la sua misura: un’asta retta, suddivisa in sottomisure della grandezza d’un pollice d’Icaro. Una misura naturale, organica come il rapporto aureo, che regola la crescita degli esseri viventi, ma non universale e nemmeno planetaria. Una misura piccola.
Ho visto nelle sculture di Icaro il luogo di un’accoglienza pericolosa, come quando il ferro attorcigliato affonda nella tavola di gesso fresco e non sai più se stia annegando o affiorando in superficie. Come quei sassi galleggianti su pozze di gesso solido, a loro volta chiuse in cestini di piombo. Anche qui c’è una misura di sprofondamento o di affioramento, una visibilità determinata dal coefficiente d’immersione.
C’è l’istinto di avvolgere e circondare, quasi di costringere. Una collana colossale, con denti di pietra bianca non somiglia forse a un giogo?
Eppure si può avvertire la qualità dell’abbraccio nell’avvoltolarsi cilindrico del piombo intorno al gesso, che cresce e decresce come nelle lunazioni, che fanno il ritmo delle maree e delle polluzioni fertili delle donne. Guardo ad Icaro come ad un intermediario, anzi come a un mediatore tra le sostanze, un pacificatore tra solidi e fluidi, tra consistenze effimere e durature, ora morbide ora taglienti. Ci sono lame di vetro che sembrano fendere il gesso dall’interno e poi volgersi fuori come ferri d’ascia o punte di freccia. Ci sono reti leggere poggiate sui sassi, oppure graffe di ferro, come suture nella pietra. Poi ci sono obelischi di gesso frastagliato che abbracciano ventri di piombo morbido. Ovunque c’è il gesso, la femmina dolce che tutto accoglie, che tutto lenisce: le punture del metallo, le percussioni del legno, gli sfondamenti della pietra.
C’è, inevitabile, una musica, un ritmo dei ferri ritorti, attorcigliati secondo sinusoidi inventate come le tracce di uno scarabocchio. Somigliano a “variazioni su un tema”, a “fughe improvvise”. Il ritmo varia secondo le superfici, che s’increspano, si raggrinzano, come le acque d’un lago. La scansione del battere e del colpire è un altro modo della misura. È un gesto ossessivo, che conduce la mente a una breve dimenticanza. Ma alla fine il corpo è ancora li, con la misura del respiro, della pulsazione, del battito di ciglia. L’uomo non si elude che per pochi attimi. E allora, mi chiedo, di che altro può occuparsi la scultura?