Ambiguità e indeterminazione delle nuove ricerche
di Ivan Quaroni
«Il linguaggio opera interamente nell’ambiguità,
e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite.»
(Jacques Lacan,Il seminario, 1953-1980)
I premi servono innanzitutto a valutare lo stato di salute dell’arte di un paese, ma anche a prendere atto delle tendenze e dei movimenti centrifughi che caratterizzano le ricerche delle giovani generazioni. In tal senso, la visione delle opere dei partecipanti al Premio Griffin 2014 conferma lo stato di crisi delle espressioni figurative, già anticipato nella precedente edizione, mostrando una generale tendenza ad attardarsi su stilemi desueti, largamente indagati nel decennio precedente. Si tratta di una crisi che riguarda soprattutto la figurazione di carattere più narrativo, quella che, per intenderci, si esprime attraverso i generi tradizionali del ritratto e del paesaggio. Si avverte, invece, un maggiore interesse da parte delle nuove generazioni verso le espressioni astratte e concettuali, forse ritenute capaci di riportare la pittura entro un dominio operativo puro, non minacciato dalla forza comunicativa e pervasiva dei nuovi media digitali. Sembra, infatti, che sia in atto uno spostamento d’interesse verso forme di rappresentazione ambigue, in cui la convivenza di elementi astratti e lacerti di figurazione confluisce nella costruzione di visioni parziali e frammentarie, che in un certo senso testimoniano un mutato rapporto nei confronti della realtà, sempre più avvertita come una struttura mutevole e instabile. Insomma, il Mondo Liquido descritto da Zygmunt Bauman produce i suoi effetti anche sulla formazione delle nuove sensibilità artistiche, favorendo ora la fuga verso la dimensione introspettiva dell’astrazione, ora la predilezione verso meccanismi di decostruzione della mimesi realistica. Nelle opere dei finalisti di entrambe le categorie del Premio Griffin, dedicate agli Studenti d’Arte e agli Artisti Emergenti, emerge un approccio di tipo formalista e concettuale, con una spiccata predilezione per la pittura aniconica.
Nella categoria Studenti, l’unica eccezione è il sudcoreano Hyeok Lee, la cui ricerca ruota attorno a temi come la guerra e la violenza. L’artista indaga attraverso un approccio multidisciplinare che spazia dalla pittura al video, la possibilità di esorcizzare la violenza attraverso la pratica artistica. Nei suoi dipinti, caratterizzati da un’estrema sintesi visiva, la figura del soldato, simbolo della guerra, irradia linee circolari e concentriche fino a formare l’immagine di un’impronta digitale, insieme carta d’identità e memoria storica (e genetica) della violenza.
Ispirandosi ai progetti dell’architetto futurista Antonio Sant’Elia, Xhimi Hoti sviluppa una pittura rigorosa, in cui dominano figure piane e solidi fluttuanti, a disegnare fughe prospettiche e dinamismi spaziali. Hoti usa la geometria come filtro per costruire (o meglio, decostruire) singolari schemi architettonici, che sospende in una dimensione densa, quasi pietrificata, tutta giocata su un registro cromatico di bianchi, neri e grigi.
Uno spazio fluido, indefinito è quello che caratterizza i paesaggi astratti di Chiara Campanile, la quale non abolisce del tutto la figura, ma ne sottolinea l’ambiguità, fino a renderla irriconoscibile. Il suo lavoro rientra appieno nella definizione di Astrazione Ambigua, usata dal critico Tony Godfrey per indicare le ricerche pittoriche dove è più labile il confine tra iconico e aniconico.
Una ricerca attenta ai materiali è quella di Livia Oliveti, che sfrutta le caratteristiche tecniche di supporti non tradizionali, come ad esempio il polistirolo, per creare una pittura caratterizzata da ritmi e scansioni quasi scultoree. Nell’opera Flowing, infatti, Livia Oliveti unisce alla tensione lirica e all’impulsività del gesto, una capacità di sintesi progettuale, che la porta organizzare le superfici come una sequenza di texture pittoriche.
Fa appello ai processi sinestetici la pittura di Florian Zyba, che rielabora la lezione puntinista di Seurat in uno stile astratto, che cattura su grandi tele circolari, memorie e impressioni del passato. Zyba frammenta le forme in nebulose cromatiche, diagrammi corpuscolari, che irretiscono lo spettatore in un labirinto di emozioni ottiche e sensazioni sonore.
Nella categoria degli Emergenti, troviamo due artisti che, con diverso approccio, operano nell’ambito dell’astrazione. Il primo è Paolo Bini, che dalle suggestioni del paesaggio, distilla una pittura dominata da cromie intense e caratterizzata da un singolare processo compositivo. Bini costruisce le sue opere giustapponendo strisce di carta gommata, ognuna delle quali viene dipinta singolarmente e poi inserita in un meticoloso assemblaggio. Il risultato sono lavori che formano pattern ad alta densità emotiva.
Un lavoro di assemblaggio caratterizza anche l’opera di Claudia Marini che, ritagliando e incollando carte incise e dipinte in precedenza, compone oblunghi grovigli di filamenti che alludono ai processi di proliferazione organica. Per costruire i suoi collage, contrassegnati da un raffinatissimo bilanciamento di linee e colori e da una pulizia formale dal sapore orientale, l’artista usa figure modulari desunte dal mondo naturale, che vengono replicate e variate, fino formare lunghe strutture verticali.
L’indagine figurativa di Annalisa Fulvi s’incentra sul tema classico della città, attraverso una dettagliata analisi delle trasformazioni delle aree metropolitane. Brani di cantieri edili e edifici in costruzione sono i soggetti di una pittura che abolisce la rappresentazione lineare, accentuando la frammentarietà della visione attraverso un caotico affastellarsi di sovrapposizioni cromatiche. Nei dipinti dell’artista, l’incompiutezza dell’architettura urbana diventa, quindi, simbolo di una condizione di dolorosa precarietà esistenziale.
Il paesaggio, filtrato attraverso una sensibilità nostalgica, è il soggetto principale dell’indagine di Giuseppe Costa, che nella serie Heimat s’interroga sul senso di appartenenza a un territorio e a una cultura specifici. Artista palermitano, trapiantato a Milano, Costa oppone allo spaesamento provocato dalla globalizzazione, la ricostruzione di una memoria personale, sorta di diario intimo, dove i luoghi della sua città sembrano perdersi nelle nebbie del tempo, avvolti in una coltre lattiginosa che rende i contorni labili e le forme evanescenti.
Con una pittura sintetica e analitica, Stefania Ruggiero priva le persone (ma anche le cose) di tratti distintivi e dettagli che possano rivelarne lo status sociale. Così, spoglia la realtà di ogni particolare descrittivo, riducendo i “soggetti” a una dimensione puramente oggettuale, al fine di stigmatizzare l’importanza di marchi e simboli commerciali nei meccanismi d’interazione della società contemporanea.