Mi parli della tua formazione e come è iniziata la tua avventura nella street art?
Ho sempre disegnato per piacere, ma non mi sarei mai immaginato di finire a fare ciò che faccio. Dopo il liceo decido di fare l’università e in contemporanea un corso di tecnico del suono, poiché suonavo, ma non avevo un talento tale da sfondare come musicista! Parto per Londra ma mi richiamano in Italia per il servizio civile: mi mandano da Franca Rame e Dario Fo. All’inizio mi occupo di digitalizzare il loro archivio, poi, dati i miei studi, inizio ad aiutare il loro fonico in qualche spettacolo. In seguito, finito il servizio civile passo alla mansione di macchinista, che non avevo mai fatto. Quella è stata la mia scuola d’arte: il teatro è un’arte globale e completa (recitazione ma anche scenografia, pittura, musica). Nel frattempo inizio a dipingere per strada, per passione. L’idea dei pinguini è nata per associazione d’idee e volevo assolutamente metterla in atto. All’inizio non pensavo di continuare, ma viste le reazioni positive della gente, ho capito che aveva senso andar avanti; iniziano anche ad arrivarmi le prime commissioni (scenografie o murales per le serrande dei negozi) e parallelamente continuo in teatro (lavoro alla Scala e agli Arcimboldi nei laboratori di scenografia). Questo lavoro teatrale è stato molto importante per una visione “dal basso”, a cui ho unito l’arte pittorica: ho un approccio del fare, ossia imparare a fare le cose facendole. Inizio in quel periodo anche a partecipare a qualche mostra indipendente, e studio come realizzare siti internet. Man mano le cose si sono sviluppate, e oggi la parte pittorica ha preso il sopravvento sugli altri tipi di lavori!
Quali sono le tue fonti, spunti, modelli; lo studio della storia dell’arte ha avuto importanza sulla tua opera ed evoluzione?
Credo che per un artista sia fondamentale lo studio della storia dell’arte, conoscere il più possibile per ampliare le proprie esperienze. Da piccolo ho visto una rivista con lavori di Keith Haring che mi hanno molto colpito, poi la pop art, i graffiti; oggi mi interessano i surrealisti (Dalì, Magritte, Escher) e il surrealismo pop (Murakami, Ron English), mi guardo molto intorno comunque!
Quale è stata la prima mostra a cui hai partecipato?
Una mostra fotografica dei miei lavori stradali all’associazione Sud, a Milano. La prima mostra in cui ho avuto un ruolo importante è stata, nel 2002, al Leoncavallo: Happening Underground, con artisti europei ed americani. L’occasione è stata fondamentale perché ho conosciuto molte persone di Milano (con cui è nata un’amicizia) e ho potuto confrontarmi con un panorama molto ampio di esperienze.
Quali sono le maggiori differenze, secondo te, tra l’attività in strada e quella in galleria? In alcuni casi si parla di “writers venduti” perché si perde il rapporto originario con la strada, sei d’accordo?
Io non mi sono mai considerato “writer”: dipingevo in strada, ma ero già particolare, ho sempre scelto supporti strani, non solo muri. Come prima sentivo la necessità di dipingere in strada perché avevo un certo tipo di linguaggio ed era il luogo giusto in quel momento, crescendo ho visto l’ampliarsi degli orizzonti, e dunque la galleria. Credo che sia sbagliato quando, entrando in galleria, si ripropone la stessa cosa che si fa in strada: sono due ambienti diversi e bisogna usare due linguaggi diversi. La strada ha un suo grandissimo fascino, ed è un luogo di crescita fondamentale, dove puoi comunicare con tutta la comunità, che ha le sue regole (tra cui la legge, che considera che se non hai l’autorizzazione sei un vandalo): non l’ho rinnegata né mi sono precluso questa via. In galleria posso fare un altro tipo di ricerca, e presento lavori differenti, perché ciò che funziona in strada non funziona in galleria e viceversa. Se trovo un angolo che vale la pena abbellire, non per vandalismo ma per migliorare la città, posso sempre agire!
Ti senti limitato dalle commissioni o dalle scelte dei curatori?
Ho sempre avuto la massima libertà: la fortuna di essere un artista che viene dalla strada mi dà la possibilità di costruirmi una mia identità forte, non sono schiavo del gallerista. Inoltre, essendo in grado di fare moltissimi lavori diversi, posso anche dire “No, grazie”, e questo è molto importante! Con i galleristi con cui ho collaborato c’è stato comunque un ottimo rapporto, il confronto è bene accetto, si riflette insieme e non c’è mai nessuna imposizione.
L’aspetto illegale del lavorare in strada serve per avere maggior adrenalina ed energia nell’opera oppure è una componente trascurabile?
Il brivido dell’illegale ha un suo fascino, ma ci sono altre cose che mi emozionano maggiormente. Preferisco concentrarmi sul messaggio e su ciò che comunico, o lavorare con calma piuttosto che di fretta. Non avendo il background nel mondo del writing, per me è più importante abbellire la città e dialogare con il pubblico che non il fattore illegale.
In galleria il pubblico è più limitato o è comunque un modo efficace per dialogare?
Per me l’arte pubblica è più importante, perché è davvero arte per tutti. In galleria qualcuno deve venire a vederti! Però su tela ho intrapreso ricerche che non sarebbero apprezzate allo stesso modo in strada.
Qual è la tua idea sul vandalismo?
Spesso si parla di tag come atti vandalici; io le considero inquinamento visivo (al pari della pubblicità). Ci dev’essere rispetto per l’ambiente: se dipingi devi cercare di dipingere qualcosa per tutti, non solo per te e i tuoi amici (la tag rappresenta un modo per dire “io esisto, sono stato qui”, come una sorta di marcatura del territorio) e devi fare qualcosa che vada verso un’evoluzione. Non apprezzo le tag perché non ci trovo nulla di artistico, ma non le demonizzo perché non sono il male assoluto (fastidiosa nello stesso modo è la pubblicità, non perché è legale, automaticamente è bella). Certo i ragazzi che fanno tag potrebbero anche fare qualcosa di migliore!
Come ti sembra oggi il panorama contemporaneo della street art?
C’è un gruppo di artisti, con cui sono cresciuto, che hanno contribuito al fenomeno in Italia (Blu, Ericailcane, Ozmo, Bros), e che portano avanti un percorso che a volte si sposta anche in galleria. Secondo me sono interessanti soprattutto coloro che non si limitano solo alla strada, ma sono artisti completi, che comunicano un messaggio che trascende il medium usato (puoi usare il muro, la tela, il video). Dal punto di vista internazionale, Banksy ha dimostrato di essere un vero artista, non si limita solo al mezzo ma il messaggio trascende l’opera. In Italia, la mostra “Street art sweet art” del 2007 al PAC è stata un buon trampolino di lancio per molti. Quel momento è stato, secondo me, il massimo della maturità, ma, nello stesso tempo, lo sdoganamento del fenomeno ha contribuito a indebolire il fattore di contestazione, di rivoluzione che la street art ha in sé. Si perde così l’aura di ribellione, entrando in galleria, e il movimento scema un po’: da lì in poi ho visto poche cose davvero interessanti e originali e si è perso il senso del gruppo, si lavora più individualmente.
Cosa si può fare per la street art oggi?
Bisogna incentivare ciò che già c’è, usando le energie creative per migliorare le nostre città e renderle più vivibili; conceder spazi non solo agli artisti già affermati ma a tutti (un esempio è il cavalcavia della Bovisa, trasformato in un’opera d’arte da artisti e writer, migliorando così lo spazio).
Qual è la tua opinione sul brutto della città (le tue opere servono a migliorare zone degradate, grigie e tristi?)
Credo che chi fa tag non lo pensi. Personalmente, ho sempre cercato di trovare angoli dimenticati dove far fiorire un po’ di colore e poesia.
Qual è la reazione degli spettatori alle tue opere?
Generalmente positiva. Ci sono stati a volte scontri civili con alcuni, poiché mi contestano il fattore illegale e non gli interessa se “sono Michelangelo e faccio una cosa bellissima, se non ho l’autorizzazione non posso farlo”. Questo non lo condivido, perché in alcuni casi si può decidere con la propria testa e “bypassare” la legge: se faccio qualcosa di bello per la città va fatto!
Quanto è importante il contesto nella realizzazione delle tue opere in strada e in galleria? In base a quali criteri scegli dove ambientare le sue opere? Nell’ambiente asettico della galleria trovi maggiori difficoltà?
Per strada devi per forza dialogare con il contesto dove dipingi, lo trovo stimolante e mi aiuta molto: dipingo rispettando lo spazio, ed è lo spazio stesso che mi comunica cosa fare. Sulla tela hai massima libertà ma anche maggiori difficoltà, per capire cosa fare; lo stesso in galleria, dove le tue opere sono anche analizzate molto più attentamente. In strada è più importante il messaggio che non la tecnica, in galleria la forma è fondamentale, insieme all’istinto devi usare la razionalità. Quando raggiungi un livello tecnico adeguato, tramite la tela, puoi indagare percorsi più complicati, che non faresti in strada: ad esempio i lavori sui concavi sono apprezzati in galleria perché hai più calma di vederli, in strada passerebbero inosservati; viceversa i murales con i loro colori forti, in galleria perdono un po’il loro fascino. La galleria inoltre mi permette di sviluppare discorsi più profondi.
Nel contesto urbano, ad esempio, nel caso dei progetti Pao Cola e Campbell, realizzati su bagni pubblici, mi è venuta l’idea guardando gli oggetti stessi. La forma cilindrica mi ha ispirato la lattina, e la scelta più ovvia era la lattina Campbell, quindi un omaggio ad Andy Warhol. I graffiti secondo me sono molto legati alla pop art, sono suoi figli illegittimi!
Come ti rapporti con il design? (Lo studio Paopao si occupa anche di design)
Parto dall’approccio “arte per tutti”, con le opere in strada. Il design dev’essere arte per le masse, come lo concepiva Munari, bellezza estetica ma anche funzionale. Partendo dai panettoni in strada, quindi da una forma, dialogo da sempre con il design, anche se non mi sento un vero designer, poiché lo faccio con approccio maggiormente artistico.
I galleristi sono sensibili all’arte di strada oggi?
Alcune gallerie sono interessate a queste nuove forme: non solo street art, ma anche poster art o surrealismo pop, tra cui a volte è difficile distinguere, è una realtà molto liquida.
Mi parli dello studio Paopao?
Lo studio si occupa di sviluppare progetti su commissione da parte di aziende o agenzie pubblicitarie, che si interessano al mio stile. Sono lavori di interior design o legati al mondo pubblicitario: ad esempio ho dipinto un tram a Milano con i miei personaggi per un’azienda di abbigliamento.
Come vedi il futuro della street art? Ci saranno più spazi dedicati o si perderà l’interesse per questa espressione? Gli artisti si orienteranno maggiormente verso l’ingresso nel circuito ufficiale della gallerie o continueranno ad avere un legame forte con la strada?
La realtà sarà multi sfaccettata. Per molti anni alcuni dipingeranno in strada, anche per farsi notare e comunicare a tutti, se non troveranno altri sbocchi più ufficiali. Oggi stanno sparendo anche i centri sociali, che rappresentavano luoghi di scambio e crescita importanti. Alcuni artisti cresceranno, faranno opere pubbliche su muro, altri affiancheranno discorsi pittorici e l’ambiente della galleria, altri entrambe le cose in parallelo. Gli artisti validi continueranno ad essere importanti, e ci sarà una nicchia di mercato per loro. Finita l’abbuffata, uscirà la qualità, le cose meno interessanti verranno accantonate.