Antonella Raio: Spettatrice nuda duello con l'immagine.
Antonella Raio (Napoli 1975), laureata all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Master in Storia dell’Arte e Design.
Artista eclettica che spazia dalla scultura alla fotografia alla video arte alla performance e all installazione con un linguaggio innovativo e assolutamente personale.
Attraverso le sue opere la Raio crea connessioni tra realtà distanti tra loro, veri e propri “ponti” che l’artista costruisce per collegare mondi separati non solo geograficamente ma anche culturalmente e concettualmente, come i grandi certi urbani con le periferie, così come la vita e la morte. Nelle sue opere la Raio gioca spesso sul tema del doppio, elemento che ricorre spesso nella sua produzione artistica, sin dagli inizi, come “Il Salto” una delle sue prime sculture, un narciso che non si ammira più languidamente nello specchio d’acqua ma che sembra volerlo sfidare.
Un giocoliere di memoria donghiana che però non vuole stupire lo spettatore ma indagare sul proprio io duellando con l’immagine di un non-io.
Sapiente manipolatrice della materia, spesso predilige l’uso dello specchio associato ad altri materiali che insieme ad un utilizzo sapiente della luce crea nuove prospettive che accompagnano lo spettatore in una dimensione altra.
Potremmo definire le opere della Raio veri e propri viaggi in nuove dimensioni.
Ti formi come Scultrice in Accademia, ma la tua idea di Scultura è sempre andata oltre i limiti imposti dai limiti del linguaggio scultoreo; hai sempre ricercato l'attenzione, l'interazione e la riflessione dello spettatore, hai sempre ampliato il territorio della Scultura rendendolo installazione, interazione e partecipazione; quasi come se ti disturbasse la passività dello spettatore nel relazionasi al tuo linguaggio, mi sbaglio?
Senti la passività dello spettatore come un problema per la tua ricerca?
Sono nata come classica, amo la scultura che contiene quella bellezza che interagisce intimamente con lo sguardo estraneo, ma nel tempo mi sono resa conto che cercare la bellezza, fine a se stessa, non è concesso alla giovinezza, ma solo all’età matura, e quindi ho iniziato un cammino di sperimentazione, usufruendo dei nuovi mezzi di comunicazione, come credo fanno tutti i giovani artisti , se ovviamente non sono manieristi .
Sperimentando, mi sono resa conto che la condivisione è il motore dell’arte che amo fare, così mi sono aperta all’interattività emozionale e tecnologica, stupendomi di come, spettatori e artisti, hanno in comune una reciproca voglia, quella di esistere.
Non ho mai pensato allo spettatore come agente passivo del mio lavoro, anzi è totalmente attivo da rendermi nuda.
Un altro punto nodale del tuo lavoro e della tua ricerca è l'ambiente, il tuo lavoro, sembra relazionarsi sempre in maniera dialettica e critica se non conflittuale, nello spazio dove interviene; quasi come se ci fosse una ricerca costante dell'evidenziare il problema della collocazione, e la difficoltà del radicare una ricerca, anche quando in apparenza sembra esserlo, la ricerca del conflitto critico e della messa in discussione delle possibilità e dei limiti dello spazio quanto è nodale nella tensione che muove il tuo lavoro?
Assolutamente per me il luogo è fondamentale, non a caso io nasco a Napoli e non a New York o a Monaco , ognuno di noi nella sua infanzia ha sentito filastrocche che gli tramandano e gli presentano il luogo che ti ospiterà per almeno i primi decenni della tua vita, e da quelle filastrocche, canzoni, odori , rumori, mica puoi fuggire , mica puoi, …semplicemente imitando un accento più alla moda dimenticare il luogo che ti ha formato.
Se fosse cosi facile allora saremmo tutti finlandesi,…ops lo stiamo diventando…
Scherzo. La questione è che il luogo può e deve crescere con il corpo che lo occupa, mi spiego:
Napoli mi cambia ogni giorno, con il suo caos, i suoi palazzi tra l’antico e il decadente, il suo odore di aglio che si fa più forte più il vicolo è stretto, ma anche il mio corpo muta Napoli, ma questo è un po’ meno percettibile perché la città non ha voce, ma reazione, è quella reazione che cerco di capire o semplicemente di porgli ascolto, per andare oltre quei limiti di spazio che non ci rendono globalizzati , ma conosciuti.
Napoli è il luogo della nostra comune formazione, un luogo dove si sopporta tutto, dove tutto è formativo e fortemente umano, di riflesso anche fortemente condizionato e condizionabile, nel nome del mercato l'abuso è sempre tollerato, venduto e svenduto, tutto sembra essere massa informe trasudante di umanità, nel nome dell'individualismo si cerca un posto al sole da soli per sostenersi ai danni dell'altro; quanto è faticoso, in questo scenario pulsante e intricato, per un artista trovare una giusta collocazione e relazione con il suo spazio?
Quanto è faticoso restare in equilibrio con la propria forma e con la propria identità artistica?
Te lo chiedo, forte della convinzione che l'apatia dello spettatore, talvolta "interessato" nel disinteresse a comprendere le dinamiche nella quali si muove, possa essere un problema per un reale sviluppo del linguaggio dell'arte contemporanea.
Il libro che più mi ha traumatizzato, quando ero adolescente è stato 1984 di Orwell , non ho mai dimenticato quella sensazione di claustrofobia che mi prendeva, mentre leggendo il libro mi rendevo conto che il rivoluzionario era la peggiore spia.
Ricordo ancora il sollievo del fine libro, sollievo simile a quando ti svegli da un incubo e la tua casa, il tuo letto è sempre li, e non è cambiato niente, e fortunatamente non è vero che esisterà sempre una guerra perenne tra tre nazioni, e non è vero che l’unico sfogo del popolo è giocare alle slot per cambiare una vita che non riesce a cambiare, e non è vero che chi mi arresta è quello al quale ho più creduto.
Ho citato 1984 per rispondere che tutto nel meccanismo dell’arte contemporanea cosi come nel mondo, segue sempre una stessa formula d’individualità, l’arte contemporanea usa il linguaggio del novecento, un linguaggio fatto del immobile moto perenne delle macchine e della perdita dell’unicità.
Non mi spaventa quindi il luogo , non mi spaventano le modalità ne le immobilità, le abbiamo studiate, viste, riviste, metabolizzate.
Quello che mi fa fatica assimilare è la perdita di speranza, cosi come si perdeva in 1984.
Lo spettatore siamo noi, se vogliamo farlo guardare dobbiamo aprire gli occhi.
L’immobilità rilassa, l’immobilità demanda, l’immobilità predilige quell’arte manierista che percorre strade già tracciate , l’immobilità da spazio più alla simpatia che alla meritocrazia, ma tutto questo è umano quindi scusabile, ma soprattutto modificabile, bisogna solo essere sinceri con se stessi e camminare e se nel cammino incontri un muro, bè puoi sempre prendere un piccone.