Nel corpo di una dea: Frida Kahlo

Riceviamo e pubblichiamo, articolo di: Francesca Pirozzi

Nel corpo di una dea: Frida Kahlo

«Quando Frida Kahlo entrò nel suo palco nel secondo ordine del teatro un tintinnio di sontuosa gioielleria coprì tutti i suoni dell'orchestra, ma qualcosa oltre il mero suono ci costrinse tutti a guardare in alto e a scoprire l'apparizione che si annunciava con un incredibile palpitare di ritmi metallici, e finalmente si rivelò l'essere che i sonanti gioielli e il silenzioso magnetismo avevano anticipato.

Fu l'ingresso di una dea azteca. Forse Coatlicue, la dea madre dalla veste di serpenti, che ostenta le mani lacerate e sanguinose come altre donne sfoggerebbero una broche. Forse Tlazolteotl, la dea della lordura e della purezza nel panteon indio, l'avvoltoio femmina che deve divorare l'immondo per sanare l'universo. O forse eravamo dinanzi alla Madre Terra spagnola, la signora di Elche, radicata al suolo dal pesante elmo di pietra, gli orecchini come ruote di carro, i pettorali che le divorano il seno, gli anelli che le trasformano le mani in clave»[1].

Con queste parole, lo scrittore Carlos Fuentes descrive il suo primo incontro con l’artista Frida Kahlo in occasione di un concerto a Città del Messico, paragonando il suo ingresso nella sala del teatro all’apparizione di una dea. Una dea dall’aspetto sorprendente e magnetico, come solo le divinità femminili primitive sanno esserlo, con i loro spettacolari apparati di animali, ornamenti e attributi, capaci di raccontare per immagini poteri e destino della propria sovrumana natura.

Non a caso, molte delle raffigurazioni che Frida Kahlo crea di se stessa - oltre la metà della sua produzione sono autoritratti che spesso esegue utilizzando uno specchio appeso al baldacchino del proprio letto - sono, infatti, strutturalmente equivalenti a quelle di divinità, madonne o santi. I caratteri distintivi sono l’espressione immutabile, fissa e severa, le sopracciglia folte e unite, i capelli raccolti e abbondantemente ornati, l’abito. Sovente si circonda anche di simboli supplementari provenienti in linea diretta dalla cosmologia azteca, quali scimmie, cani iztcuintli[2], uccelli, collane di giada, sculture precolombiane, corpi celesti, ferri, ferite ed una varietà di piante messicane con cui illustra la sua condizione presente ed il tema specifico del dipinto.

Vi è, dunque, un nesso evidente tra l’iconografia del divino femminile e l’immagine ieratica di sé che Kahlo costruisce ed offre al pubblico in presenza e attraverso i suoi autoritratti. Un nesso che le sue opere restituiscono pienamente, regalandoci la suggestione di contemplare l’effige misteriosa e talvolta terribile di una dea-madonna, accompagnata da creature simboliche e adorna di fiori, merletti e perle, come nei retablos[3] esposti nelle case messicane per la devozione privata o portati in processione nelle feste popolari contadine. E dai retablos, appunto, Frida trae ispirazione per la propria arte attingendone «diversi elementi: l’aggiunta di scritte esplicative in relazione al soggetto del dipinto; la presenza di immagini simboliche, il carattere illustrativo di un fatto veramente accaduto, la mescolanza di immagini-simbolo e realtà, il puntiglio nella raffigurazione dei dettagli, l’aspetto quasi votivo o apotropaico di molti dei suoi quadri (che spesso, insieme a altri paraphernalia folklorici, Frida amava tenere fisicamente intorno a sé, o inviare agli amici, con valore di protezione, ricordo, monito)»[4]. Tuttavia, prima ancora che nell’adozione di un linguaggio religioso-popolare, è nel quotidiano e meticoloso allestimento della propria figura in una veste ultraterrena, che Frida esprime in maniera più profonda la propria adesione a quella spiritualità primitiva che pervade ogni azione e aspetto della vita, trasformandolo in rito, pur senza privarlo della propria concretezza.

I suoi fastosi travestimenti le consentono di mascherare i postumi dalla poliomelite e di celare le ferite e le menomazioni inflitte al suo corpo dal terribile incidente occorsole quando aveva diciotto anni[5] dissimulando sofferenze e fragilità attraverso un’apparenza festosa e regale, che ne esprime appieno l’energico temperamento[6]. L’indumento assume in tal senso la funzione di un’armatura per difendere dal resto del mondo il suo corpo debilitato, quasi una seconda pelle, un confine tra il corpo nudo, ferito e indifeso - come talvolta ci appare nelle sue tele - ed il corpo vestito, ovvero protetto, risanato, redento. Così, al di là di qualsiasi ragione funzionale, pratica o puramente estetica, abbigliamento, acconciature ed accessori vistosi e ricercati diventano gli elementi di un cerimoniale - come nella leggendaria vestizione dell'imperatore Montezuma, assistito da decine di ancelle - tramite il quale Kahlo accede ad una dimensione magica e sospesa, nella quale è lei stessa a riscrivere la realtà e a trasformarla. L’abito - dal latino habitus, da habere, ovvero modo di essere, disposizione dell’animo – diviene «una specie di tavolozza da cui scegliere, giorno per giorno, l’immagine di sé da presentare al mondo»[7] e, come per l’uscita in scena di un attore, è il risultato di un lavoro accurato e profondo sul proprio corpo per prepararlo ad esporsi agli sguardi altrui o ad essere immortalato dal suo pennello. Il corpo smette, così, di essere «un dato fatale della natura. È diventato l’opposto, una scelta che contrastava la natura, una scelta dello spirito»[8], nel senso che, una volta rivestito di segni, è in grado di trasmettere messaggi inibiti alla parola e di farsi strumento fondamentale per la realizzazione della propria identità.   

Ecco allora che la sapiente costruzione della propria immagine come processo di sublimazione della realtà si configura come esperienza artistica in senso ancestrale, in quanto azione-linguaggio che pone l’artefice in rapporto con la trascendenza. Sembra, infatti, che Frida stessa assimilasse i propri addobbi straordinari e laboriosi ad una sorta di vestizione cerimoniale per prepararsi alla morte, quella morte che le fu sempre accanto al punto da farle sentire di essere «vissuta morendo»[9] o di essere stata «assassinata dalla vita», come scrive nel suo diario. Ed è, infatti, quasi un rituale di mascheramento quello che lei compie nell’allestire il proprio sontuoso abbigliamento, come nell’uso di Teotihuacàn, la grande città precolombiana degli dei e dei morti, nella quale i sepolti indossavano una maschera di eccezionale bellezza, ricoperta con preziosi mosaici di turchese, corallo e ossidiana, grazie alla quale potevano elevarsi allo stato di teutl, eroi divinizzati, e condurre una mitica esistenza nell’aldilà.

Il suo stesso destino – o, come lo chiamerebbe Hillman, il suo daimon[10] - sembra guidarla sin dal principio verso la vocazione della sua anima, rappresentando già nella scena dell’incidente il senso profondo del suo “essere al mondo” come una dea-regina avvolta di luce dorata alle soglie del regno dei morti: se nelle sepolture paleolitiche il corpo è cosparso di ocra rossa, un pigmento dal forte valore simbolico che richiama il sangue e la sua forza vivificatrice, Fuentes racconta che dopo il terribile impatto Frida «restò a terra, nuda, insanguinata ma ricoperta dalla polvere d’oro fuoriuscita dal sacchetto di un decoratore che le sedeva accanto»[11].

E non a caso le sue stesse opere sembrano gravitare nel limbo della sospensione dei mondi, volteggiando sul vuoto, come ponti tibetani, tra la dimensione dell’aldilà e quella dell’aldiquà, tra la consapevolezza del proprio io profondo ed il proprio destino mortale, tra la propria intima essenza ed il mascheramento imposto dalle convenzioni sociali e dal turbinio del quotidiano, ed ognuna è come un mantra nel quale Frida ribadisce, con l’assertività del proprio sguardo, la propria disperata bramosia di vita e la volontà di mutare la più pesante delle esistenze terrene nel volo leggiadro di una creatura spirituale. Lea Vergine scrive a proposito che «Frida Kahlo prese la propria realtà per i capelli e la trascinò in un ambito in cui il vero non ha nessun privilegio sul falso»[12], facendo appunto riferimento a questa commistione di verità e finzione, di simbolismo e realismo, in cui vita e morte, beatitudine e malattia, sogno ed esperienza, sono il risultato di un’unica matrice di pensiero e la rappresentazione di sé è un metalinguaggio per raccontare la sua “privilegiata” comprensione dei reconditi significati dell’esistenza[13].

Il corpo é il codice grazie al quale Kahlo traduce la sua consapevolezza in espressione pittorica, in quanto la profonda coscienza del proprio corpo lacerato lo trasforma in una sorta di centro del visibile: «il mezzo attraverso il quale tutte le cose vedono»[14]. Per lei creazione artistica ed esperienza corporea, risultano così due termini di uno stesso segmento, intercambiabili l’uno con l’altro, e attraverso la preparazione e la raffigurazione pittorica della sua persona fisica, quest’ultima viene rinforzata e condotta a nuova vita, in una sorta di liturgia quotidiana di rinascita e sopravvivenza. Anche nelle rappresentazioni in cui il corpo appare mutilato e sanguinante, Frida ricorre al sangue come a un mezzo di purificazione e di catarsi: l’esposizione del dolore è un modo per estrarlo da sé e per trasformare la propria personale sofferenza nella teatralizzazione di un dramma che fa eco all’iconografia cristiana introdotta dai conquistatori spagnoli e governata da una concezione tragica del mondo (cuori trafitti, cristi sanguinanti, santi e martiri torturati).

L’esperienza individuale pervade, dunque, in modo potente e autentico la pittura di Frida Kahlo, tuttavia la rappresentazione di situazioni autobiografiche, esplicitamente autoreferenziali e intrinsecamente femminili, trascende il carattere meramente personale per farsi racconto universale e simbolico - «una vita contiene gli elementi di tutte le vite» scrive al riguardo Diego Rivera[15] - ed il soggetto corporeo migra dalla dimensione terrena del “qui ed ora” a quella trascendentale attraverso un processo di spersonalizzazione iconica, ieratica e (a)sessuata.

Nel ricreare instancabilmente ed ossessivamente il proprio corpo, assimilandolo di volta in volta, attraverso trasfigurazioni, mascheramenti e metamorfosi, a nuove identità transitorie (meticcia, tehuana[16], androgino, madre, figlia, moglie, pittrice, inferma, etc.) che si avvicendano al ritmo del flusso della sua coscienza, l’artista risponde al bisogno di “autoriprodursi” nell’arte, colmando ciò che è negato alla propria corporeità di donna[17]. Nella consapevolezza della propria incapacità di trasmettere umanamente la vita attraverso l’atto della riproduzione, Kahlo identifica, infatti, la nascita con la creazione artistica e se stessa con l’archetipo della Madre-Terra, pachamama, immagine atavica di prolificità, che dà alla vita il suo corpo, simbolo universale dell’umanità, svincolato pertanto da precise connotazioni sessuali, sociali o culturali, ma in continuo e perenne cambiamento di stato[18].

Strumento fondamentale di questo continuo alternarsi di identità e di rapporti tra corpo e mondo esterno è l’abito e il vincolo esistente tra vestiario ed immagine di sé, tra stile personale e linguaggio pittorico, costituisce un aspetto fondamentale della vita di Frida. Talvolta nel suo abbigliamento confluiscono elementi di origine diversa, come i tessuti provenienti dalla Cina, i merletti europei, i coloratissimi filati messicani, confezionati dal suo sarto in abiti esotici ed originali, oppure capi etnici si combinano a quelli vintage o al vestiario tipico delle soldaderas (le donne che avevano combattuto al fianco degli uomini durante la rivoluzione messicana), come gli stivaletti di cuoio o il rebozo  (lo scialle usato per proteggere le spalle o per portare i bambini) col quale ci appare in alcuni bellissimi ritratti fotografici di Nickolas Muray. Ma da quando, nel 1929, sposa Diego Rivera, Frida Kahlo indossa il costume delle donne tehuana dell’Istmo di Tehuantepec e questa diviene la sua mise preferita anche in contesti ufficiali non messicani, come a New York o a Parigi – dove i bambini la scambiano per una circense - e quella con la quale si presenta tutt’oggi nell’immaginario collettivo: una camicia ricamata dalla foggia squadrata, scialli enormi e colorati, una lunga gonna, abitualmente di velluto viola o rosso con una balza bianca di cotone, e sandali ai piedi. Come gioielli, pesanti collane precolombiane, lunghe catene di monete d’oro, anelli e orecchini di giada, lapislazzuli, turchesi, coralli, perle di vetro, e, per le occasioni speciali, un pizzo che incornicia il viso oppure una elaborata acconciatura dei capelli a cui sono apposti fiori o intrecciati brillanti nastri di lana colorati fermati da pettini vistosi.

È un modo per risalire alle proprie radici native messicane[19] e per dichiarare la propria vicinanza al mondo indio e alla ricchezza del suo folclore ed è l’emblema di un’esplicita presa di posizione politica, in linea con la rinnovata ondata di orgoglio nazionalpopolare[20] promossa dalla Rivoluzione Messicana. Ma è anche una dichiarazione culturale ed identitaria, cioè una modalità per affermare il proprio rifiuto delle convenzioni, anche di quelle dei circoli intellettuali ed artistici, e la propria originaria e ideale appartenenza ad un mondo femminile fiero e autonomo, come quello della società matriarcale[21] di Juchitán, nota per la sua tenace resistenza tanto all’assimilazione culturale quanto al controllo europeo e patriarcale. Qui ogni donna può ostentare la propria libertà ed esibire con coraggio e naturalezza la propria bellezza, pur conservando il pieno rispetto della centralità del proprio ruolo sociale ed il riconoscimento delle proprie attitudini e capacità. Perciò, nell’indossare l’abito delle donne zapoteche, Frida ne assume su di sé l’aura indipendente, orgogliosa e volitiva e si costruisce una potente immagine pubblica, che diverrà, in seguito, icona popolare di una femminilità autentica ed emancipata, imponendosi nella cultura globale come incarnazione della forza, della vitalità e della sorprendente capacità creativa e generatrice del genere femminile.

Unitamente all’uso strategico del costume da tehuana, l’abitudine di dipingere e decorare «i vari busti di gesso che fu costretta a portare in diverse epoche della propria vita, i nomi delle persone amate ricamati sul guanciale, il letto da lei stessa adornato con cui si fece trasportare all’inaugurazione della sua personale del ‘53»[22], in altre parole, «l’indifferenza nei confronti della radicata estetica del “capolavoro”, profondamente maschile e fallica, e la tensione verso una dimensione più fluida e più comprensiva della creatività»[23] che privilegi linguaggi, oggetti, materie e temi del quotidiano, così come l’insofferenza ad una unicità identitaria sessuale e di ruolo, l’esposizione impietosa del proprio corpo martoriato, l’elaborazione in chiave simbolica del principio di maternità, la comunione con la natura, fonte di energie creative e vitali, sono tutti elementi che anticipano le esperienze artistiche “al femminile” che prendono vita per lo più dagli anni Settanta in poi e che recuperano, infatti, attività e attitudini specificatamente femminili, come l’intima ritualità e sacralità del lavoro domestico, la manualità ripetitiva del ricamo e della tessitura, l’attenzione al corpo della donna e alla sua inviolabilità, la rappresentazione delle ferite come immagine di violenza e dolore, l’emancipazione sessuale, il valore paradigmatico del materno e l’identificazione di vita e creazione (Maria Lai, Louise Nevelson, Gina Pane, Marina Abramovic, Louise Bourgeois, Francesca Woodman, Nike de Saint Phalle, Meret Oppenheim, Georgia O’Keeffe, Ana Mendieta, etc.).

Achille Bonito Oliva scrive che «Frida Kahlo sembra proporsi come santa protettrice, la pulzella di Mexico City che sfida iconograficamente i re misogini di una pittura tutta al maschile»[24], ma la sua sfida va ben oltre l’adozione di valori estetici alternativi, essa fa appello al cuore, alla mente e allo spirito. La sua spiccata sensibilità si traduce, infatti, inevitabilmente anche in una profonda delusione rispetto al mondo e al quadro concettuale androcentrico che lo governa e quindi nel desiderio di inventarlo da capo, superando le convenzioni sociali, insieme con le norme cattoliche e borghesi che le fondano, e ribaltando la logica del dominio sulle donne, sulla natura e sulla diversità, comunemente interpretata come inferiorità, nel bisogno di esplorare se stessa e nella tensione ad una dimensione sovrasensibile, che si nutre di una spiritualità femminile ancestrale, intrisa di eros[25] e salvezza.

 

 



[1] Kahlo F., Il diario di Frida Kahlo. Autoritratto intimo, a cura di Fuentes C., Lowe S.M., Mondadori, Milano 1995

[2] razza canina messicana la cui provenienza si fa risalire alla civiltà azteca nel periodo preispanico.

[3] I retablos messicani sono piccole icone introdotte dai colonizzatori spagnoli come sussidio didattico per la comprensione dei testi sacri, poi sopravvissuti nella tradizione popolare anche come tavolette votive, generalmente dipinte ad olio da devoti sprovvisti di formazione artistica accademica, ma motivati da un forte sentimento religioso che si rivela attraverso una qualità naive della composizione, dell’anatomia, della prospettiva e dell’uso vibrante del colore.

[4] Senaldi M., Van Gogh a Hollywood: la leggenda cinematografica dell'artista, Meltemi editore, Roma 2004

[5] L’autobus su cui viaggiava si scontrò con un tram e Frida fu trafitta da un’asta di metallo fratturandosi la colonna vertebrale in tre punti nella regione lombare, la clavicola e due costole. La gamba destra patì ben undici fratture e il piede destro fu dislocato e schiacciato. La spalla destra rimase per sempre slogata e il bacino subì fratture multiple. Fu ricoverata per un mese e poi costretta a portare un busto di gesso per i successivi nove mesi. Durante i 29 anni che seguirono l’incidente, fu sottoposta a 32 interventi chirurgici e la sua vita, dal 1925 in poi, equivalse ad una battaglia contro la sofferenza ed il declino fisico. Si sentiva continuamente affaticata ed era afflitta da dolori quasi costanti alla spina dorsale e alla gamba destra. Ci furono periodi nei quali il suo stato di salute era abbastanza buono e nei quali il suo claudicare si notava appena, ma gradualmente andò peggiorando. Herrera H., Frida. Vita di Frida Kahlo, a cura di Nadotti M., La Tartaruga, Milano 1993

[6] «Frida Kahlo era una Cleopatra sfiorita, che nascondeva il corpo tormentato, la gamba inerte, il piede offeso, i busti ortopedici sotto gli spettacolari ornamenti delle contadine messicane, che per secoli conservavano gelosamente i gioielli, protetti dalla povertà, per esibirli solo nelle grandi fiestas delle comunità agrarie.

I merletti, i nastri, le gonne, le sottane fruscianti, le trecce, le acconciature a forma di luna le aprivano il viso come le ali di una farfalla notturna: Frida Kahlo dimostrava che la sofferenza non riusciva a fiaccare, né la malattia a eclissare, la sua infinita versatilità». Carlos Fuentes, op. cit.

[7] Hayden Herrera, op. cit.

[8] Duras M., L’amante, Marguerite, Feltrinelli, Milano 1985

[9] «come ha detto un testimone ancora vivente» Vergine L., La bomba Frida che faceva impazzire Duchamp su Corriere della Sera del 12 gennaio 1994

[10] Hillman J., Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, traduzione di Bottini A., Adelphi, Milano 2009

[11] Carlos Fuentes, op. cit.

[12] Lea Vergine, op. cit.

[13] Nel 1926, dopo l’incidente, Frida scrive al proprio fidanzato Alejandro Gòmez Arias: «Io so già tutto, senza né leggere né scrivere. Poco tempo fa, forse solo qualche giorno fa, ero una ragazza che camminava in un mondo pieno di colori, di forme chiare e tangibili […] Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura per me era un gioco. Se tu sapessi com’è terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso […] come se un lampo illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore trasparente come il ghiaccio. È come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi.» Carlos Fuentes, op. cit.

[14] Rico Cervantes A., Frida Kahlo: fantasía de un cuerpo herido, Plaza & Janez, Mexico 1987

[15] Rivera D., Frida Kahlo y el arte mexicano in Boletín del Seminario de Cultura Mexicana, n.2, Mexico City 1943

[16] donna appartenente alle comunità indigene dell’area dell’Istmo di Tehuantepec di cui Frida adotta il tradizionale costume.

[17] Pur desiderando di essere madre, Frida Kahlo non vi riuscì mai a causa delle conseguenze dell’incidente incorrendo quindi più di una volta in situazioni di aborto, volontario o meno, come quello rappresentato nell’opera “Henry Ford Hospital” del 1932.

[18] «Frida é stata la prima donna nella storia dell’arte che con sincerità brutale e si potrebbe dire persino con tacito impeto, coglie quegli aspetti generici e caratterizzanti che concernono esclusivamente le donne. [...] La personale espressione di queste realtà e sensazioni femminili, proprio perché in grado di suscitare la riduzione delle stesse allo scheletro della verità, mediante l’esatta e intensa attinenza a sé stessa finisce sempre per incorrere in un ampliamento universale e assumere una dimensione sociale.» Diego Rivera citato nel catalogo ragionato dell'artista del 1988 a cura di Prignitz-Poda H., Grimberg S. e Kettenmann A.

[19] Frida è figlia di una mestiza (il nonno materno era di ascendenza indigena, mentre la nonna spagnola) e di un tedesco ebreo, a sua volta tedesco solo di nascita, ma di ascendenza ungherese. Cercherà di conciliare queste due eredità, nativa ed europea, propendendo progressivamente verso una sempre più evidente dicotomia tra di loro e giungendo infine ad identificarsi completamente, con il sé nativo messicano, ovvero con la mestiza.

[20] in senso gramsciano, a designare la rinascita dei valori nazionali attraverso la valorizzazione della cultura popolare del paese.

[21] In un Messico, caratterizzato dalla cultura del "machismo" improntata alla superiorità maschile latina, il matriarcato di Tehuantepec costituisce un ambito protetto nel quale sopravvivono l’uguaglianza di genere e la separazione dei compiti in base al sesso: le donne gestiscono completamente i mercati e l’economia, lavorano le materie prime e si occupano della casa e della cura e educazione dei figli, mentre gli uomini sono impiegati nei campi e nella pesca, ricoprono le cariche politiche e quando percepiscono un salario – e questo avviene in una minoranza di casi - lo consegnano alle donne, cui viene riconosciuta una specifica attitudine per l’economia. Questo ha dato luogo a un sistema economico autosufficiente, fondato sulla centralità della figura femminile e sulla profonda dignità del lavoro e orientato ai principi della mutualità e dell’equilibrio, che risulta essere tra i più prosperi dell’America Centrale e che non risponde alla logica astratta del profitto, ma a quella del benessere concreto della comunità. Si tratta, in altri termini, di una società poco stratificata, nella quale l’economia di scambio non segue le leggi equanimi del mercato capitalistico, bensì criteri socio-culturali, come lo sono i rapporti di reciprocità esistenti tra i membri della comunità. Qui il prestigio ed il merito personale non sono legati all’accumulo di ricchezza e al possesso di beni, bensì al dono e alla condivisione, nello specifico, all’organizzazione e al finanziamento di eventi che coinvolgono tutta la collettività, come le Velas (feste locali con sfilate di carri allegorici), durante le quali le donne più ricche mettono a disposizione i propri mezzi per offrire un’esperienza di bellezza, piacere e benessere a tutti i membri del clan, attuando così una sorta di livellamento delle differenze patrimoniali che rafforza la coesione sociale.

Sul matriarcato di Tehuantepec si vedano ad esempio Bennholdt-Thomsen V., Una società Matriarcale al tempo della Globalizzazione. Juchitán - Messico del Sud, Rowohlt, Reinbek 1997 e Goettner-Abendroth H., Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia, Venezia 2013

[22] Marco Senaldi, op. cit.

[23] Corgnati M., Artiste: dall'impressionismo al nuovo millennio, Mondadori, Milano 2004

[24] Bonito Oliva A., Frida Kahlo, bella di nessuno, in A.A.V.V. Frida Kahlo, a cura di Prignitz-Poda H., Electa, Milano 2014

[25] in senso filosofico, come forza cosmica e vitale che aspira al vero bene assoluto.

 

Francesca Pirozzi

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