La storia di Eric Hobsbawm

Il britannico Eric Hobsbawm (1917-2012), di origine ebraico - austriaca (il cognome vero era Hobsbaum, divenuto “bawm” per un errore di trascrizione)  è stato uno dei maggiori storici del ‘900.  Lo è stato per lo meno grazie a una mole impressionante di saggi, fra cui “Il secolo breve” (da molti considerato il suo gioiello) e una serie di studi sull’evoluzione del potere borghese. Particolarmente felice appare “Il trionfo della borghesia” 1848-1875” (trad. di Bruno Maffi, Universale Laterza).

Caratteristica principale delle trattazioni di Hobsbawm è la ricostruzione minuziosa di eventi reali che hanno creato le basi per l’affermazione di una classe sociale cresciuta, per quanto riguarda il potere nel sistema, in modo esponenziale dopo la rivoluzione francese. Non sarebbe potuto essere altrimenti, considerando il fatto epocale della nascita della rivoluzione industriale, la caduta del potere spirituale e la crisi di quello temporale a seguito della divisione delle spoglie del vecchio impero cristiano, a partire dalla scomparsa dell’imperatore asburgico Carlo V (1558). Il concetto d’impero finiva definitivamente dopo la Guerra dei Trent’anni (1618-1648). Questa fine favorì la creazione di potentati locali, animati da una base imprenditoriale sicura di sé come mai.

Hobsbawm, dotato di una capacità di scrittura incantevole, viva, vede nel trionfo della borghesia la fine dei poteri forti e parassitari e la nascita di un sistema nuovo, sostanzialmente senza ideali. A questa mancanza egli oppone, tuttavia, una sorta d’idealismo romantico tramandato dal marxismo. Questa fenomenologia, porta lo studioso – di fronte al quale per molti versi bisogna inchinarsi – a una ricerca quasi ossessiva degli elementi che portarono, nel periodo indicato dal saggio, a un’evoluzione produttiva e commerciale impressionante, a scapito di un ordine crescente programmato con assennatezza. Chiara deduzione: l’assenza di una tale programmazione è indice della presenza di governi deboli e quindi dell’anarchia comportamentale, responsabile della grave crisi dei valori umani per eccellenza.  

Argomentando in questo modo, Hobsbawm, non nasconde del risentimento per il trionfo di quella che vede e che sente come un’irrazionalità intollerabile a capo ormai del sistema. La sua borghesia è una banda di affaristi che specula su tutto lo speculabile, schiavizzando direttamente o indirettamente altri esseri umani. Tale considerazione conduce Hobsbawm alla ricerca esasperata di prove a conforto del suo pensiero, secondo il quale vale, nel sistema borghese, il profitto individuale e di classe, più il primo del secondo, ma sino a un certo punto (altrimenti non sarebbero sorti conflitti fra le parti). Una certa ammirazione per i passi da gigante compiuti dalla rivoluzione industriale non è pareggiata dal dissenso sotterraneo (però neanche tanto) per la sola cura di una delle capacità dell’uomo, quella, pur importantissima, di migliorare le condizioni di vita. Ma l’impegno migliorativo è in realtà un pretesto per acquisire vantaggi da parte di chi aziona la macchina, determinando un  altro tipo di verticalità del sistema: questa volta materiale, in barba a ogni morale. E sicuramente di difficile/impossibile rimozione rispetto ai sistemi precedenti.    

Il grande studioso di storia tende a enfatizzare i dati e a perdersi in essi, roso dal timore di non riuscire a dimostrare l’ingiustizia sociale in atto, nonostante la rivoluzione industriale sia figlia dell’Illuminismo. Egli prende una strada apparentemente facile per giungere alla dimostrazione, profondendosi in ricerche particolareggiate e in rivelazioni ai suoi occhi strepitose perché in esse ci sarebbe la spiegazione amara di una preoccupazione sociale a senso unico. La fornitura di notizie sulla produzione dei singoli articoli, ovvero l’escalation produttiva, impressionante, nei pochi anni presi in esame (meno di trenta) è di certo interessante, non spiega, però, in maniera adeguata come e perché questo fenomeno sia avvenuto.   

La non spiegazione (o la poca spiegazione, per giunta tradizionale) affonda le proprie radici nella convenzione marxiana che demonizza l’affermazione industriale dietro gli input forniti dalle condizioni (pessime) dei lavoratori sulle quali un Marx dickensiano sviluppò il grosso delle sue idee egualitarie, idee caritatevoli a sostegno della dignità umana in generale, che Hobsbawm tradusse nel proprio linguaggio.

Va detto che la straordinarietà delle trattazioni del Nostro meritano assolutamente attenzione e riflessione, ma va anche aggiunto che muoversi continuamente entro determinate griglie (cosa che non riguarda, ovviamente, solo questo storico) crea ripetizioni e confusione speculativa. Esiste una maniera per tutto, in questa nostra società, e raramente (assai raramente) si va oltre, si va in profondità: l’eccesso provoca censura ed emarginazione. Forse non esiste ancora una maturità di pensiero pari alla maturità del sistema borghese, di cui, in effetti, Hobsbawm non si cura, diventando, involontariamente, un nemico della storia oggettiva. Leggerlo fa bene agli occhi e al cuore, ma la storia pretende speculazioni più articolate, più significative, più vicine all’uomo in genere, priva di manicheismi palesi e mascherati (il contrario è abitudine da tempo immemore). L’utilità dello studioso britannico sta quindi nella formulazione di quadri generali storici molto accurati, come fossero cartine di un eterno piano di battaglia di buoni contro cattivi: ma dove sono gli uni e gli altri? E perché esiste la distinzione? 

 

     

 

Dario Lodi

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