Vito Ranucci: Traccio percorsi musicali di vita, non esperienze di genere.
Presentato in Europa con alcuni concerti in Olanda (Istituto Italiano di Cultura/Pianola Museum), un lungo speciale a cura di Peter Krause trasmesso dal network “Deutschlandfunk” (Germania) e un concerto napoletano (Teatro Mercadante) nel dicembre 2013, KTC – Killing The Classics vede finalmente la luce e aggiunge al ricco curriculum di Vito Ranucci un nuovo accattivante esperimento sonoro.
Come dichiara Girolamo De Simone, compositore e agitatore culturale sempre attento alla ‘musica di frontiera’, “La prima parola che viene in mente ascoltando Killing the Classics è ‘trasfigurazione’. Non si tratta di rivisitazione, trascrizione, commemorazione, allitterazione… Ranucci parte dai classici e a conti fatti non li uccide affatto, anzi! Il titolo del disco, provocatorio e stimolante, viaggia a braccetto con quello straordinario statement di Giuseppe Chiari, nato in piena era Fluxus: “Quit classic music”, nella consapevolezza che la musica classica è memoria, arricchimento, purché non diventi repertorio, e, subito dopo, gabbia soffocante o cassetto polveroso”. In questa trasfigurazione, in questa uccisione del maestro per trarre nuova linfa e rinnovata ispirazione, sfilano brani di Mozart, Satie, Vivaldi, Bach, Puccini e altri, tra i quali Ranucci inserisce anche composizioni proprie quali Tempus Fugit (ispirata all’Epistola a Lucilio di seneca) e Lost In The Garden, ispirata al Giardino delle Delizie di Bosch.
Una sequenza di connessioni tra diverse forme d’arte, tra colto e popular, nella quale Ranucci si muove agilmente, con ospiti come Ernesto Vitolo e Federica Mazzocchi (testi originali), con la sicurezza del compositore esperto e sempre incuriosito da nuove possibilità espressive. Quella sicurezza che aveva affascinato Mario Monicelli, per il quale Ranucci aveva composto il tema principale della colonna sonora di Le rose del deserto (2006), ultimo film diretto dal maestro.
Partiamo dal rapporto della tua musica con il linguaggio delle arti visive, dialoghi con grandi classici dell'arte e nel contempo dichiari di volerli superare e uccidere.
Ti muovi tra linguaggi dell'arte e usi l'arte come metafora per descrivere il tuo percorso musicale?
Credo sia esatto parlare di utilizzare l'arte come metafora, ma per descrivere il mio sentire, ed è questo poi a tracciare i percorsi.
Credo sia essenzialmente un riversare in musica le proprie esperienze personali, di vita quotidiana, non la somma di una serie di esperienze musicali da riproporre simultaneamente.
La pluralità del linguaggio e delle sonorità che utilizzo si riferisce al mondo che percepisco ogni giorno intorno a noi, la mia parte di esperienza della vita, questi sono gli elementi che impattano sulle mie scelte compositive.
Non assolvo ad alcuna funzione "empirica", come fare musica fine a se stessa, o esercizi di genere, la musica è sempre e soltanto un viatico per me, attraverso cui far transitare i più svariati messaggi, racconti, sensazioni, in definitiva, la vita.
Quanta arte musicale e popolare è limitata dal classico e dalla tradizione?
Sinceramente, credo che la chiusura, di fronte all'infinità dell'arte, sia un problema delle persone, prima che delle istituzioni, o dei programmi di studio.
Chi non ama allontanarsi dalla retta via, chi si muove nella musica o nell'arte in genere, seguendo sempre e soltanto la filosofia del politicamente-corretto, più che dei limiti si troverà ad operare in delle gabbie.
Una grande storia può intimorire, ma può anche stimolare chi ha gli strumenti per crescere, e la voglia ed il coraggio di provare a scriverne un'altra di storia, la propria.
Focalizziamo il discorso sullo scenario musicale napoletano: molti artisti vivono ancora forse di rendita, in relazione a quello che negli anni novanta era stato definito "Rinascimento napoletano", il mix tra la tradizione classica popolare della musica del Regno delle due Sicilie e un adattamento di certi suoi contenuti ai new media della musica.
Nella pratica forse tutto il contesto ha ricampionato la tradizione e i suoi contenuti, piuttosto che ricercarne il senso nella contemporaneità, mi sbaglio?
Si è trattata di una vera rivoluzione del linguaggio artistico musicale locale?
Se lo è stata a cosa ha portato nella pratica?
Come tutti i napoletani, sono orgoglioso delle mie radici, ma di recente ho percepito come una cappa soffocante quel mondo artistico che mi descrivi.
Questo nuovo progetto sancisce per me anche la possibilità di condurre il mio know-how napoletano aldilà di quella funzione di "souvenir" che racconti di una certa napoli o di un'altra napoli, che ci si aspetta sempre da un artista napoletano, rappresenta la mia voglia di approdare a linguaggi e repertori lontani dal retaggio cittadino e nazionale, di mettersi alla prova, di mettersi a nudo, lasciando a casa la tradizione, la storia, degli stereotipi, la Napoli ed il sud oleografici che fin troppi hanno già ben descritto e raccontato.
Devo esplorare il mondo delle possibilità.
In quanto a ciò che succedeva negli anni '90, l'avvento del digitale, la moda della world-music, crearono questo fenomeno, che per la prima volta utilizzava la tradizione trascendendo dal suo significato originale, ma avvicinandola, in maniera a volte bella, altre volte maldestra, ai codici della musica pop.
Oggi Napoli, pur mantenendo statuarie tutte le sue eterne bellezze, purtroppo non è quella città affascinante-cosmica dell'antichità, o delle cartoline, è innanzitutto una città del presente, non del quadro, una città della fame, non dell'arrangiarsi allegramente.
Credo che così come nel mondo arabo, la musica popolare del sud Italia sia stata contaminata nettamente dal pop e dalla televisione, dando vita a fenomeni come i neomelodici e i rapper dialettali.
In quanto al tentativo di ricontestualizzare la tradizione, questo rientra nell'utopia del singolo artista, ma la musica tradizionale, è stata tramandata fino a noi, perchè assolveva ad una precisa funzione sociale, e solo grazie a questo è potuta sopravvivere nel tempo, non di certo a prescindere da quella funzione, ed è proprio in quel suo significato relazionale, umano, che risiedono la sua bellezza e la sua importanza.
La tua ricerca musicale, sembra invece mirare a sondare il limite del classico e a raccontare la contemporanea babele dei linguaggi (non solo musicali) in una forma, estetica quanto musicale e sonora, che dal punto di vista dell'equilibrio compositivo, sembra rincorrere, in maniera quasi antagonista e competitiva il classico; uccidi il classico senza negarlo nel suo valore assoluto.
Così conflittuale per un artista, il rapporto con la tradizione e il contesto di passione, che lo ha formato, generato e determinato?
Credo che il vero limite sia nel rigore con cui si affronta il repertorio classico, come se si maneggiasse un oggetto fragilissimo mentre si sta procedendo in equilibrio precario.
Dal momento in cui un'opera è un dato di fatto, è storia, è registrata, stampata per i posteri, spedita nello spazio, dopo averla riascoltata a lungo, non ci resta che trarne qualche ispirazione, farne altro, altrimenti la stiamo trattando alla stregua di una piramide egiziana, di un oggetto inanimato, un reperto archeologico.
Attraversarla, questo per me significa "interpretare" un'opera, la mera esecuzione è altro, ed è assolutamente fungibile, dal mio punto di vista, rispetto a quelle infinite possibilità che stanno nella rilettura di un'opera.
Forse ho perso tutti i freni inibitori e sto peccando di presunzione, ma le mie origini sottoproletarie e l'amore per la musica, fanno tutto, e mi conferiscono tutta la libertà intellettuale necessaria per affrontare con la massima apertura e spontaneità, questo tipo di operazioni.