PARLA RODOLFO DeBENEDETTI

Daniele Manca per il "Corriere della Sera"


Rodolfo De Benedetti, 50 anni appena compiuti, guida da
amministratore delegato la holding di famiglia Cir, 4,8 miliardi di
ricavi, 15 mila dipendenti; la società controlla l'editoria del gruppo
Espresso-Repubblica
, ma anche la sanità di Kos, l'energia di Sorgenia e
le attività industriali di Sogefi. 
Di fronte alle difficoltà innegabili
del nostro Paese negli ultimi mesi mostra un approccio molto pragmatico,
lontano dalle critiche. «Mi interessano i numeri più che le parole -
dice -. E se vedo che nel nostro Paese ci sono circa 6 milioni di
partite Iva e che continuiamo a essere grandi esportatori, penso alle
occasioni che stiamo perdendo»
.


Il governo lamenta che gli imprenditori si sono messi a fare politica...
«Le
faccio una premessa: non credo agli imprenditori come categoria
monolitica. E comunque per me non devono fare politica. Anche questa
spasmodica ricerca di un possibile leader di ipotetici schieramenti tra
chi fa impresa mi sembra un'anomalia».
Una posizione alla Marchionne...
«No,
semplicemente ritengo che noi facciamo un mestiere che è importante, ma
siamo una parte. È la politica che fa la sintesi tra le diverse
categorie della società. Questo non significa che dobbiamo voltare la
faccia dall'altra parte».
Be' assomiglia molto a «cari politici lasciateci lavorare».
«Il
contrario. Se dovessi esprimere una richiesta alla politica, sarebbe
quella di mettere l'impresa al centro dell'agenda economica, che oggi è
cruciale, e di fare il possibile per varare provvedimenti a costo zero
che possano favorire lo sviluppo delle aziende».

Mi scusi, ma sembra il consueto lamento degli imprenditori.
«No.
Credo che raramente sia colpa solo di una parte e quindi solo della
politica. Noi imprenditori dobbiamo mettere assieme capitale e lavoro
per produrre maggiore ricchezza. Evidentemente se persino negli Stati
Uniti qualcuno sta mettendo in discussione il sistema capitalistico
(cosa mai avvenuta), anche noi imprenditori qualche domanda ce la
dobbiamo porre».
E allora cosa lamenta?
«Secondo gli studi della
Banca mondiale sulla facilità di fare business, su 183 Paesi siamo
all'87° posto perdendo 4 posizioni rispetto all'anno scorso. Nella
velocità per i permessi edilizi siamo al 96°, nell'allacciamento a reti
elettriche al 109°, nell'accesso al credito al 98°. Non brilliamo per i
tempi di apertura delle imprese. Siamo infine al 134° per facilità di
pagare le tasse perché abbiamo sistemi così complicati che scoraggiano.
Un'impresa impiega 285 ore l'anno per adempimenti fiscali».

Sembra di sentire il Cavaliere.
«Queste cose le
imprese le dicono da anni ma non mi pare sia stato fatto molto per
migliorare la situazione. Un altro tema sono i tempi della giustizia
civile: servono 1245 giorni per capire tra due contendenti chi ha
ragione su un contratto».
Nel caso del lodo Mondadori però la giustizia è stata molto veloce e voi avete potuto incassare oltre mezzo miliardo...
«I
fatti risalgono a più di vent'anni fa, giudichi un po' lei... Su quella
vicenda rimando ai magistrati e agli avvocati. Ci sono stati due gradi
di giudizio. Ci hanno dato ragione. Ci sarà un ricorso da parte della
Fininvest, i nostri avvocati presenteranno le loro controdeduzioni. Non
abbiamo mai interferito con il lavoro della magistratura e non abbiamo
intenzione di farlo adesso. In questa vicenda la Cir è stata danneggiata
e ha agito a difesa di un diritto dell'azienda e dei suoi azionisti».
Ma se la situazione è questa, aziende come la sua Cir come fanno a sopravvivere in un Paese come quello da lei descritto?
«Intendiamoci,
la nostra è un'economia importante. Il problema delle aziende è che
potrebbero svilupparsi molto di più di quanto si riesce. Una delle
eccellenze italiane è la capacità di fare impresa: 6 milioni di partite
Iva che a vario titolo sono imprenditori».

Se è per questo l'Italia è risultata anche il primo Paese
esportatore al mondo per crescita nel secondo trimestre, più di Germania
e Cina...

«È la prova di una vitalità invidiabile. Per
questo va creato un clima molto più favorevole alle imprese. Non
possiamo accettare come Paese di essere diventati irrilevanti prima e
addirittura dannosi adesso. Noi siamo il secondo Paese produttore di
beni in Europa, una ricchezza che molti ci invidiano».
Mi scusi ma il quotidiano, «la Repubblica», di cui è editore non descrive una società così vitale... Anzi.
«Questo
non è vero. Comunque sul tema vorrei essere chiaro, anche se lo diciamo
da 20 anni. Una cosa è l'azienda, un'altra è la parte editoriale.
L'azienda nomina i direttori in base a un progetto editoriale che poi
viene declinato in autonomia. L'azienda è interessata alla qualità del
prodotto e ai risultati, che sono la migliore garanzia di indipendenza. I
giornali li fanno i giornalisti. Tutti possono criticare le opinioni e
la linea editoriale, ci mancherebbe, ma mi pare che la qualità e
l'autorevolezza di Repubblica e delle testate del gruppo siano
indiscutibili. Quanto all'azienda, il management dell'Espresso, al pari
di quello delle principali società del gruppo, sta facendo un ottimo
lavoro pur in una fase difficile».
E allora dove sono i problemi?
«Le faccio un
esempio. La nostra Kos che dieci anni fa non esisteva e ora fattura più
di 300 milioni con 4 mila dipendenti, attiva nella sanità, ha un tax
rate (utile pre imposte/tasse pagate) del 68,5%, in Francia aziende
analoghe pagano tra il 31 e il 39%. Questo significa meno utili e a
catena meno capitale per lo sviluppo e meno competitività. Penso invece
che sarebbe opportuno spostare il carico fiscale dall'impresa e dal
lavoro alle rendite improduttive».

È solo un problema di competitività?
«No, anche
di concorrenza. Pensi alle telecomunicazioni mobili. La concorrenza ha
portato o no benefici al consumatore e all'economia? Io credo di sì. Non
siamo noi a dirlo ma è l'Istituto Bruno Leoni a individuare un'Italia
aperta alla concorrenza solo al 49%. Le sole liberalizzazioni secondo
Bankitalia nei prossimi 20 anni produrrebbero 11 punti in più di
ricchezza, di Pil. Nell'energia, dove il mercato un po' è stato aperto,
specie nell'elettricità, nel giro di pochi anni con Sorgenia abbiamo
investito circa 2,5 miliardi in Italia, attirando capitali anche
dall'estero e creando 500 posti di lavoro. Penso anche che bisognerebbe
privatizzare di più».

Guardi come è andata a Telecom, le cessioni di Stato non sono state una gran cosa.
«Ma
perché una è stata fatta male non significa che non si debbano fare.
Anche perché siamo all'assurdo che lo Stato regola e poi è attore dei
settori da lui regolati. Guardi l'energia...»
Ma spesso le resistenze vengono proprio da categorie imprenditoriali e professionali...
«Per
questo serve una politica che faccia sintesi. Prendiamo gli
investimenti dall'estero, sembra che a noi italiani non interessino.
Abbiamo il terzo debito pubblico al mondo e respingiamo chi vuole
investire in Italia».
A chi si riferisce?
«Gli esempi sono tanti:
Alitalia, Edison, Parmalat. L'Italia attira meno investimenti esteri
rispetto ai maggiori partner europei: questo è un indice che spiega
chiaramente la necessità di aprire di più il Paese al mercato e alla
libera impresa. La situazione è difficile ma sono certo che se ognuno di
noi fa bene il proprio mestiere, ciascuno per la sua parte, e fa le
cose giuste, questo Paese non è condannato al declino.


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