Al centro della poesia di Elisa Biagini, troviamo il tema dell’identità femminile e di conseguenza quello del corpo. Un corpo che non viene idealizzato, ma è colto nella sua emergenza fisica. Attraverso un linguaggio aspro e conciso, la sua poesia ci sprona a un confronto diretto con la realtà materiale del corpo, fatta di ciglia, denti, nervi, ossa, cartilagini, liquidi organici e ovuli, dato che evidentemente si tratta di un corpo sessuato. Materia organica e dunque deperibile, fragile. I suoi versi brevi ed essenziali, ci avvertono: tendiamo a dare per scontato che il corpo sia nostro alleato, ma in esso alberga il pericolo del suo essere perituro. Non soltanto, l’immaginario legato al corpo non può non risvegliare paure attuali sulla possibilità di una sua alterazione tecnologica, come suggeriscono filoni di pensiero come il post- umano. Una poesia cruda, a volte, quella della Biagini, ma mai consolatoria, che ci obbliga a guardarci allo specchio, a sentire fino in fondo la fragilità del congegno umano. Nei suoi versi il corpo tende a farsi inoltre mappa di un’identità femminile, che non può mai definirsi una volta per tutte, ma vive di continue metamorfosi e confronti dolorosi. L’io subisce attriti, slabbrature, va in pezzi e il corpo diventa oggetto di una percezione feroce. Guardato dall’esterno, raggelato da uno sguardo clinico –che ricorda la prosa di Valerio Magrelli in Condominio di carne- reso oggetto da scomporre in parti autonome. L’unica ipotesi di saldatura, di ricucitura delle parti - e qui la frequente metafora del filo e del cucire a mio avviso lo rivela- coincide forse con la tensione a un ritorno, al tuorlo d’uovo, all’embrione. Potremmo dire a una percezione prenatale di sé, come se questa fosse contenuta nella memoria del corpo femminile, che a sua volta può contenere la vita: “bimba nella/placenta, bimba/sotto coperta,/nella corteccia/morbida di pelle/indurita dal/ bosco, rossa/ come scottata/ rossa che nuoti nel/tuo sangue/appena fatta, bimba/qui scodellata” (da Nel bosco, Einaudi 2007). Ne L’ospite, raccolta uscita per Einaudi nel 2004, troviamo innumerevoli riferimenti alla realtà d’un recinto, di un microcosmo domestico. La casa, qui non coincide più però con il nido, che accoglie e protegge, ma diventa luogo di rovesciamento delle certezze acquisite. Nell’apparente familiarità del nucleo ristretto, la vita si mostra quale compatta nevrosi e alienazione. A questo si aggiunge la presenza di un doppio, di un tu femminile con le sue implicazioni inquietanti. Il doppio mette a dura prova la stabilità dell’io, attraverso un gioco di somiglianze e differenze, di accoglienze e di rifiuti, l’identità si sente minacciata. L’ospite chiede di essere ammesso col rischio di divorare l’identità di chi lo accoglie, a sua volta costretto ad attuare strategie di decostruzione per sottrarsi all’annientamento “ho i tuoi pezzi di/corpo, ma mischiata di piedi/sconosciuti, orecchie nuove,/certo te, ma non tutta”. Il confronto con l’ospite, una figura materna o genealogica (una nonna?), somigliante e differente, scardina ogni speranza di solidità, mette in scena il corpo, inteso come abitudine biologica, che adempie ai rituali del pasto, della veglia e del sonno, innescando comunque la possibilità dello scacco, dell’incrinatura dolente: “non ho lasciato/pozza pezzi/di dna che tu/mi cloni, mi/fotocopi:/sola e/mutante,/con la testa/allungata di/ sospiri”. Dentro a questo teatrino o romanzo familiare in versi, fatto di ripetizioni meccaniche, “di notti fotocopie”, il corpo finisce per affermare il suo mistero, i suoi sommovimenti, la schiusa ovulare, che si oppone al desiderio di controllo di un’identità sull’altra. In Nel bosco, uscita nel 2007 per Einaudi, il riferimento è al bosco come luogo archetipico delle fiabe. Luogo dove per eccellenza ci si può perdere o ritrovare. Nei versi della Biagini questo spazio si configura come regno dell’ indistinto, selva. Il bosco è una presenza minacciosa, perturbante e non si trova fuori di noi, ma dentro il corpo stesso e con esso in molti casi coincide. Continuamente dissezionato e ricomposto, il corpo – bosco si mostra come sede di un’identità misteriosa, per raggiungere la quale occorre disfarsi della ragione, perdersi. Il solo abitante del bosco è una donna – bambina che si scruta, restituendo la mappa di un corpo infranto, decostruito: “bevuta nei/2 occhi-pozzi/specchiata nei/32 denti/annusata dai/ gangli:/perduta/cercata nelle 2/ mani-piatto”. Nell’inoltrarsi in questo sentiero, la bambina va investigando la sua identità, scivolando come in un gioco di specchi dentro a un teatro di figure femminili, familiari e straniate. Da cappuccetto rosso nella sezione Cappuccio rosso a Gretel nella sezione Gretel o del perdersi: “perduta? È il bosco/ che mi segue, che beve/ la mia ombra, mi/ svuota, tronco cavo:/io foglia, tra le/ pagine di un libro”. La sezione centrale, che si intitola La sorpresa nell’uovo, sembra suggerire un altro percorso. Quello della perdita nell’indistinto, del ritorno simbolico allo stato d’embrione, alla materia prima indifferenziato, DAS, pasta di pane o torta, burro, latte e soprattutto Uova appunto. L’autrice immagina di fare ritorno al tondo della pancia di sua madre, di ritornare feto: “io, una bolla/ di latte che/ nel tuo/ movimento si/ fa burro….io che risalgo come/pesce a pelo d’acqua/affacciata dall’/oblò della/ tua bocca” e di rimettersi al mondo: “sgusciata dal/mio primo cappotto/sbucciata all’/ossigeno, al/suono, spellata di/ placenta (una sorella)/ questa mia pelle che/ mi sbadiglia/infuori”. Il perdersi, filo conduttore della raccolta, è necessario per ritrovarsi, come sottolinea la citazione di Cattafi, citata dall’autrice,: “La mente non capisce questo amore/per certi posti remoti dell’interno,/ insidiosi, inospiti,/ di barbara bellezza./ Non capisce/ la necessaria perdita nei boschi”. Le provviste per affrontare il viaggio nell’inospitale bellezza del bosco, come nella precedente raccolta, sono frugali e misurate. Il lessico è prosciugato ed essenziale, i versi coincidono spesso con un’unica parola, gli aggettivi sono usati con parsimonia. Leggendo quest’ultima raccolta della Biagini, si ha ancora più forte l’impressione, di udire i colpi d’ascia del taglialegna, che si fa strada nel bosco del linguaggio. Si avverte lo sfregamento della lima sul foglio, lo sforbiciare, volto a eliminare il superfluo a favore di un’estrema pulizia della lingua e della visione che viene data in offerta a chi legge.