Aprendo l’uovo di Pasqua, nella rubrica Time dripping di Lobodilattice troviamo l’avanguardia americana. In realtà è il contrario: aprendo l’avanguardia americana, si trova... un uovo di Pasqua. Così capita, infatti, se ci s’imbarca su di un curioso tandem pasquale di opere, individuabili tra quelle in mostra a Roma a Palazzo delle Esposizioni nel contesto della rassegna Il Guggenheim - L’avanguardia americana dal 1945 al 1980. Domenica di Pasqua (1971) di Robert Motherwell ed In di Roy Lichtenstein (1962) possono andare a braccetto, per un insolito percorso concettuale, come solo i migliori amici farebbero nel lunedì in Albis.
Proprio in tema di feste pasquali, un professore dell’Università di Salerno, Giuseppe Foscari (dipartimento di Scienze Politiche), ha pubblicato informalmente un post su Facebook – ah, l’era dei social network! – che più o meno suona così: “La Pasqua del sacrificio tribale degli agnellini, la Pasqua delle uova a caro prezzo, la Pasqua degli auguri anche a chi proprio non se li merita, la Pasqua luculliana degli occidentali mentre altrove si muore di fame e ci sono guerre. Di noi diranno tra un secolo che non eravamo meno barbari di quelli che noi oggi riteniamo barbari! Auguri meditativi per tutti!”. Il mio trip mentale e storico si è materializzato in un battito di ciglia. Meditazione estetica.
In tema di guerre, in quel di Palazzo delle Esposizioni, nel contesto della mostra americana, ho apprezzato in particolare una delle numerose opere di un ciclo assai significativo, eppure poco conosciuto dal grande pubblico: le Elegie alla Repubblica Spagnola di Robert Motherwell. Devo ahimè notare che nelle sale espositive romane al momento l’opera di Motherwell spicca decisamente rispetto a quelle di contemporanei più famosi come Mark Rothko e Jackson Pollock, poiché ritengo che questi ultimi siano a proprio agio – specie il primo – prevalentemente con i grandi formati: il pittore lettone – e non russo, come ripeteva insistentemente la guida... – poiché ne necessitava, con i multiforms, per creare superfici assorbenti, in grado di stabilire un’empatia visiva con lo spettatore; il secondo, perché sarà pur vero che su quei quadri-arena – chi si ricorda di Harold Rosenberg? – doveva camminarci. Mentre l’assenza di opere di Rothko dal ciclo dei multiforms – che invece nella monografica di qualche anno fa, sempre a Palazzo delle Esposizioni, facevano bella mostra – si spiega con la scelta di presentare alcuni dipinti di palese matrice surrealista e di suggestione mitologica (i primi anni ’40, in stretto contatto con Adolph Gottlieb), vedere striminziti Pollock di 50 x 70 mi ha un po’ intristito. L'effetto è pericolosamente decorativo, la stanza è angusta. La visione pure?
L’opera di Motherwell dal titolo [Elegia per la Repubblica Spagnola n. 110], domenica di Pasqua, invece, è un pezzo di estremo interesse, ben lungi dai rischi di tappezzeria apocalittica in cui incorreva l’Espressionismo Astratto secondo Rosenberg quando indugiava in compiacimenti decorativi: temo, un rischio da cui nemmeno lo stesso Pollock è stato davvero esente in alcune circostanze. Nel quadro di Motherwell (208,3 x 289,6 cm) agnelli non se ne vedono, né derive da tappezziere. Si tratta di simboli senza simbolicità, della morte e della vita messe su tela nell’autonomo, intraducibile linguaggio della pittura. Il pittore fu impressionato dalle vicende della guerra civile spagnola – le stesse che ispirarono Guernica di Picasso – che scoppiò nel 1936, quando l’artista aveva solo 21 anni. 200 sarebbero state le Elegie dedicate al tema.
Quest’opera in mostra, proveniente dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York, credo si colleghi bene alle parole dello stesso artista, quando retrospettivamente ha interpretato così la propria produzione: “Dopo averli dipinti per un certo periodo, ho scoperto il Nero come uno dei miei soggetti – e col nero, il bianco di contrasto, un senso della vita e della morte che per me è piuttosto spagnolo. Sono essenzialmente il nero spagnolo della morte in contrasto al bagliore della luce solare tipo Matisse”. Il bianco spumoso che si distende in fasce discontinue, come pomice liquefatta, ancora gravida dell’eruttivo gesto del pittore, contorna le pozze nere, giustapposte come abissi ritmici dagli orli sfrangiati di un crepaccio nerissimo. Non sussiste la secchezza semiotica delle associazioni nero-morte, bianco-vita, ma l’immediatezza emotiva che subito si è fatta “cosa”, pittura: non rimanda alla natura, bensì la natura, semmai, vi si ricollega, a posteriori. Come dimostra, d'altronde, la presa di coscienza ex post del pittore.
Setacciare i titoli delle opere degli American painters tra gli anni ’40 e ’50, a tratti significa effettuare la ricognizione di un incubo: tante sono le mitologie tragiche tirate in ballo, le visioni distorte ed enigmatiche, le evocazioni apocalittiche, le fobie atomiche. La loro umanità si è fatta unico, grande agnello, ibridato col suo stesso carnefice, nella peculiarità irripetibile dell’espressione pittorica. Con The Omen of the Eagle (1942-43, non in mostra) Rothko si riallaccia all’Orestea di Eschilo, precisamente alle due aquile che predano con violenza una lepre pregna, interpretate dal profeta Calchas come Agamennone e Menelao che conducono i Greci alla vittoria e Troia alla distruzione. Secondo l’autore, tuttavia, di là dell’aneddoto è l’essenza del mito ad informare questa storia: un’essenza che descrive come “un panteismo che unisce uomo, uccello, animale e albero”. Allo stesso tempo, l’aquila costituiva un simbolo nazionale tanto per i Tedeschi quanto per gli Americani e la guerra interpretata da questi ultimi come vittoria conflitto tra barbarie e civiltà. Sia il riferimento all’essenza del mito che quello alla storia vengono unificati sul piano universale del simbolo attraverso una peculiare traduzione nel sistema di segni della pittura: l’ibridazione e la scomposizione delle figure a cui ricorre l’autore indica, infatti, tanto il rapporto delle parti col tutto secondo l’idea panteistica, quanto l’impossibilità di discernere barbarie e civiltà, aggressore ed aggredito, aquile e lepri, poiché tutto si sintetizza nel primigenio impulso distruttivo degli uomini che si macellano a vicenda. È dunque la struttura formale o linguistica dell’opera a consentire l’assorbimento semantico dell’essenza del mito.
Ma con la Pop Art, l’ibridazione si è fatta piena fusione: la Pasqua degli agnelli è diventata tutt’uno con quella delle uova; la distinzione tra una società lucullianamente capitalistica e brutalmente guerrafondaia si è nascosta dietro una cortina variopinta e rutilante; la civiltà (del consumismo) e la barbarie di un mondo senza nemmeno più il conato sentimentale dell’elegia, si coniugano nell’accettazione; colori esplosivi e bomba atomica sono la final destination di un mostruoso essere metà lepre, metà aquila. I colori sono freddi come la guerra; o, per citare quel film di Fassbinder, l'amore è freddo come la morte. In di Roy Lichtenstein presenta enormi fasce nere come l’opera di Motherwell: ma rispetto alla capacità del soggetto di ritrovarsi nella gestualità irregolare e smagliata di quest’ultimo, il pittore pop contrappone un “nero” oggettivo, ortografico, che non racconta un dramma universale, ma l’atarassia elevata a dato antropologico. Non più la guerra, ma la pubblicità; non la cronaca tragica di un’interiorità ferita a morte dall’irruzione della Storia, ma la collisione fumettistica e delimitante delle cromie; non un linguaggio dell’io, ma un linguaggio di un “noi” al quale è facile aggiungere la “a” per ritrovarsi nella noia di Moravia: “Il sentimento della noia nasce in me da quello dell'assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza”.
Perché il mondo fake della pubblicità e del consumo è il regno dell’effimero: in cui alla traccia della tragedia espressionistica si è sostituito il sedimento di una citazione imbalsamata. Matisse è tornato: ma è tappezzeria in tempo di apocalisse. Il rosso della stanza di Matisse (1908) è mutato in pubblicità decorativa, a pochi anni di distanza dalla marcia (funebre) dell'Armata Rossa in un conflitto truculento e con gli spettri, poco allegri, della corsa agli armamenti. I colori sono freddi come la guerra. Ancora è il panteismo di Rothko: ma i nuovi dei sono Coca Cola e zuppa Campbell. L’agnello di carne è diventato di cioccolata: ed i barbari, si sa, sono ingordi.
Buona Pasqua a tutti.
Antonio Maiorino