Divulgazione malata: così abbiamo parlato di alcune mostre che ci sono apparse sterili forme di propaganda, con fili tematici tenui, spostamenti inutili di opere d’arte ed una ridondanza mediatica che vorrebbe spacciarsi per legittimo imbellettamento della cultura. (Se la polemica non interessa, salta al terzo paragrafo e leggi di Giacometti). Come a dire: il fine del raggiungere il pubblico giustifica i mezzi delle semplificazioni ma soprattutto delle amplificazioni. Il risultato è che ci troviamo con una monografica su Tiziano alle Scuderie del Quirinale, ma nessuno si spiega perché è solo a Roma che ci si preoccupi di far venire la gente a vedere il Ritratto di Paolo III Farnese prestato dal Museo di Capodimonte di Napoli, sistematicamente vuoto. Le mostre tirano più dei musei: e consapevoli di ciò, si creano ad hoc dei mostri, ossia degli shock effimeri per riattivare l’attenzione. È la sindrome del maledettismo: Modigliani, Soutine e i maledetti è un titolo su misura per la pubblicità, più che per la Storia. Picasso è ovunque – per carità, se lo è meritato: ma fa ombra ad un’infinità di storie dell’arte che da lui dovrebbero discendere come ovvia conseguenza, e che invece sono trascurate.
Premesse e promesse senza conseguenze: non erano premesse, dunque, ma erano solo l’ennesima speculazione sui grandi nomi della storia dell’arte. Perché non ci spiegano, piuttosto, il mito del picassismo che ha investito mezza arte italiana nel secondo dopoguerra, dopo l’esposizione alla Biennale del 1948 di 22 opere dello spagnolo, tra cui spiccava Pesca notturna ad Antibes (1939, oggi al MOMA)? “Ci riconosciamo soltanto in amore e odio. Picasso, con Guernica, pone tale questione”, scrivevano Treccani e Morlotti; mentre Guttuso attraversava con impeto il confronto quasi fisico con quella pittura, purché non diventasse “morte formale”; e Birolli pareva snobbarlo (“di Guernica, allora, non sapevo che farmene”). Ma facilmente, alla Croce, potremmo concludere in quasi tutti i casi: “perché non possiamo non dirci picassiani”.
Ma a quanto pare, per rinverdire i rami secchi della storia dell’arte e per fare divulgazione, forse, bisogna attraversare questa strategia del maledettismo, l’unica che sembra produrre appeal e non mettere a rischio i labili equilibri di Amministrazioni, Curatori e Musei, obbligati a fare il boom, più che a fare conoscenza, a costo di trascurare argomenti interessanti ed artisti di rilievo, ma poco seducenti. E sia così – avevamo accondisceso: visto che inagurava la mostra The Playing Fields ad Amburgo su Alberto Giacometti, ci si era divertiti a scendere in campo, giocando, nel raccontare l’arte dello scultore attraverso nove maledizioni. Ecco le ultime tre.
LA MALEDIZIONE DELLA MORTE – In un racconto autobiografico del 1946, riportato anche da Alessandro Del Puppo, Giacometti rammenta di aver scontato il trauma della morte, trovandosi di fronte al cadavere di un uomo che abitava nello stesso stabile del suo atelier. Aveva osservato una mosca sparire nell’incavo della bocca, di quel corpo senza vita. Una scultura del 1947 sembra rinnovare quell’esperienza, che in fondo percorre con diverse modulazioni l’intera opera dell’artista, sgretolando l’assolutezza dei corpi nella finitezza dell’istante; traducendo la vitalità dei modelli nella sospensione di un’istantanea che devitalizza, anziché immortalare. Testa su stelo, quasi un cranio impalato con un sadismo tribale, fa di quella sospensione una privazione: l’apertura della bocca è uno spasimo, un vuoto, una sottrazione – di impulso vocale, e quindi vivente; di spazio, e quindi di massa; di materia, e quindi di energia. Il gesso si solca di contrazioni dipinte color ruggine, carne putrefatta o metallo disfatto. L’esilità dello stelo si fa stele: il volto assurge a maschera funeraria, ma per i vivi. “Quando per la prima volta percepii distintamente la testa che guardavo irrigidirsi, immobilizzarsi istantaneamente, definitivamente, tremai di spavento come non mai nella mia vita e un sudore gelido mi corse per la schiena. (…) Urlai di terrore quasi avessi varcato una soglia e fosse entrato in un mondo mai veduto prima. Tutti i vivi erano morti, e questa visione si ripeté spesso, nel metrò, per strada, al ristorante, con amici” (Alberto Giacometti).
LA MALEDIZIONE DEL RITRATTO – Quando Paola Carola, figlia di un facoltoso impresario d’origine italiana, si presentò a Giacometti come Paola Thorel e gli chiese di dipingerle un ritratto (era il 1958, a Rue Hippolyte-Maindron, Parigi), l’artista replicò che non ne era in grado, e che non poteva nemmeno iniziare. Poi iniziò, invece: ma costrinse la modella a posare tre volte a settimana per otto mesi.
I bronzi del secondo dopoguerra esprimono l’ansia di un ritratto impossibile, di una laboriosità estenuata. Se i ritratti pittorici sembrano ossessionati dal mutarsi in perpetua grafia, ossia in scrittura sterile, graffiata, che però non riesca a graffiare, ad incidere sulla realtà per appropriarsene quantomeno in un brandello; quelli scultorei sembrano piuttosto diventare essi stessi strumenti d’incisione: i busti del fratello Diego si assottigliano, consumati, ma nello stesso modo in cui una lama taglierebbe una pietra per renderla a sua volta tagliente. Il busto del ’54 di Zurigo mostra questa propensione assiale che assale: la visione laterale e quella frontale si disgiungono, il viso diventa un cuneo, come una daga previamente sottoposta al tormento del fabbro. La bocca aperta – come nella Testa su stelo – è aggredita, ma anche aggressiva: come quelle rientranze delle mura di fortificazione che Michelangelo studiò in difesa “offensiva” della Repubblica di Firenze, minacciata dal ritorno dei Medici, tra il 1529 ed il 1530. Spiega Giacometti: “è proprio questo che mi stupisce: anche nella testa più insignificante, la meno violenta, nella testa del personaggio più evanescente, più molle, quando incomincio a disegnarla, a dipingerla, o a scolpirla, tutto si trasforma in una forma tesa, di una violenza estremamente contenuta, come lse la forma stessa del personaggio andasse sempre al di là di quel che il personaggio è realmente, ossia soprattutto una specie di nucleo di violenza”.
MORTE IN ATELIER – Chiudiamo defilandoci. Proponiamo, per pura suggestione, un confronto tra il finale di La morte a Venezia di Thomas Mann ed un passo di un amico di Giacometti, Jean Genet, tratto dall’opera L’atelier di Giacometti, in merito alla scultura Donna di Venezia I ed alle altre consimili. Nell’opera di Thomas Mann, un anziano scrittore, vedovo a Venezia in cerca di nuove esperienze di viaggio e di visione, dopo aver dedicato una vita alla creazione metodica ed affaticata, si rigenera nell’attrazione verso un giovane polacco, Tazio, che rimira più volte in estasi contemplativa, cercando di studiare ogni segreto di quell’ineffabile bellezza, mentre la morte avanza in Laguna, con la diffusione di un’epidemia di colera. Gli si vorrebbe avvicinare, gli vorrebbe sfiorare il capo apollineo, ma non ne trova il coraggio. Alla fine, pare stia colmando quella distanza, invitato da un cenno dell’efebo, sulla spiaggia scintillante del Lido. Ma è solo un’illusione, un sogno ad occhi aperti prima che la morte prenda anche lo scrittore e lo allontani da quelle carni reali e seducenti. (Lo “spettatore” è lo scrittore morente, lo “psicagogo” è Tazio).
Thomas Mann: “Lo spettatore era seduto là come un tempo, quando per la prima volta, lanciato da quella soglia, quello sguardo grigio crepuscolo aveva incontrato il suo. La testa, appoggiata allo schienale, aveva seguito, lenta, i movimenti di quello che laggiù camminava, poi si alzò, quasi a incontrare lo sguardo, e ricadde sul petto così che gli occhi guardavano dal basso, mentre il viso mostrava l’espressione floscia e intimamente abbandonata di un sonno profondo. Lui però si sentiva come se il pallido e amato psicagogo là fuori gli sorridesse, lo chiamasse; come se, togliendo la mano dal fianco e additando un punto lontano, si librasse in avanti nell’immensità promessa. E, come già altre volte, si accinse a seguirlo. Passarono minuti prima che accorressero in aiuto dell’uomo caduto sul fianco, nella poltrona. Lo portarono in camera sua. E il giorno stesso, un mondo impressionato e deferente apprese la notizia della sua morte”.
Jean Genet sul ciclo di Giacometti Donne di Venezia: “Esse procurano questa strana sensazione: sono familiari, camminano per strada. Stanno nel fondo del tempo, all’origine di tutto, non finiscono mai di avvicinarsi e di indietreggiare, in un’immobilità sovrana. Non appena il mio sguardo cerca di prender familiarità con loro, di avvicinarle, ecco che – senza furia, senza collera e irruenza, ma soltanto in virtù di una distanza fra loro e me che non avevo notato, perché era così esigua e ridotta da farle credere vicinissime – esse si allontanano a perdita d’occhio: questo perché la distanza tra loro e me si è improvvisamente aperta. Dove vanno? Anche se la loro immagine continua ad essere visibile, dove sono?”
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