I generi stanno alla pittura figurativa come le declinazioni alla lingua latina. Sono forme attraverso cui si “coniuga”, appunto, la rappresentazione d’immagini intellegibili e sono, allo stesso tempo, i capisaldi della storia dell’arte. Aldo Damioli vi si è dedicato fin dagli esordi, nella convinzione che alla pittura figurativa spetti l’arduo compito di rigenerare (e attualizzare) procedure che affondano le radici in un tempo lontano. “Generi e rigeneri” è, dunque, un titolo esemplificativo della speciale attitudine dell’artista, che interpreta la conoscenza tecnica e la riflessione sul linguaggio come parti fondanti di un processo in divenire.
Damioli è, senz’ombra di dubbio, un pittore apollineo, capace di imbrigliare il daimon dell’espressività entro confini certi e di dominare il colore, la composizione e la prospettiva con scientifica acribia. Il Dalai Lama una volta ha detto: “dobbiamo imparare le regole in modo da infrangerle nel modo giusto”. Ed è questo l’atteggiamento che segna la ricerca di Damioli, un pittore essenzialmente formalista, incline a considerare l’arte come un campo sovraccarico di segni e soprattutto di regole che non possono essere trasgredite alla leggera, nemmeno in nome di una fin troppo semplice, e perfino un po’ sospetta, libertà d’espressione. Per Damioli i generi rappresentano i domini dell’ortodossia, le giurisdizioni della figurazione, dentro cui si dipana il delicato compito dell’innovatore.
Nei suoi primi lavori, ha scelto un soggetto anticonvenzionale come la pizza e l’ha trasformato in un vocabolo che ha poi ossessivamente reiterato fino renderlo un originale spunto per la rappresentazione di paesaggi e vedute di un’irriverente Arcadia surreale. In quelle opere giovanili era già visibile, in nuce, il ricorso dell’artista a soggetti pretestuosi, per dispiegare una pratica pittorica squisitamente linguistica e concettuale. Un’idea che, più tardi, si sarebbe precisata con i dipinti dedicati alle Venezia – New York e ai paesaggi urbani di Parigi, Shanghai, Berlino, Mosca, Londra e molte altre città. In queste opere, l’architettura urbana diventa leitmotiv e pretesto per affermare uno stile chiaro e limpido, improntato alla massima esattezza ottica.
Damioli rappresenta scorci cittadini e frammenti di skyline in cui ambienta banali spaccati di vita quotidiana, Sono visioni placide e immote, rischiarate da una vivida luce, paesaggi sublimati, epurati dalle imperfezioni atmosferiche e luministiche della pittura realista, costruiti, piuttosto, applicando rigorosi precetti geometrici e cromatici. Più che ai maestri del Vedutismo settecentesco, ancora intrisi dal tonalismo della tradizione veneta, il pensiero corre alle Città ideali del Rinascimento urbinate, a quegli anonimi dipinti su tavola – oggi conservati alla Galleria Nazionale delle Marche, al Baltimora Walters Art Museum e alla Gemäldegalerie di Berlino – dove l’elemento unificante è appunto una luce chiara, cristallina, che crea un’atmosfera di composta e rarefatta perfezione.
Tutta la pittura di Damioli è improntata alla luminosità e alla chiarezza, ma anche alla scorrevolezza e fluidità di racconto e all’interesse verso temi popolari, qualità che da appassionato musicofilo, egli ritrova nel manifesto dei Sei di Parigi, un gruppo di musicisti, capitanato dallo scrittore Jean Cocteau, che negli anni Venti si opponeva all’impressionismo di Debussy e al wagnerismo tedesco, proponendo un deciso ritorno alla semplicità e all’elementarità della musica popolare e da varietà. È un’attitudine che ritroviamo nella predilezione dell’artista verso immagini chiare e comprensibili, tanto dilettevoli quanto prive di sovrabbondanza stilistica e concettuale.
Il ritratto, genere al quale si possono ascrivere le sue più recenti opere, è, dopo la natura morta e il paesaggio, la naturale conseguenza di un percorso che l’artista definisce “aulico”. Dal punto di vista linguistico, Damioli lavora sulla forma chiusa dei generi perché è consapevole che le uniche innovazioni possibili in pittura sono quelle che riguardano l’iconografia e la trasformazione dei cliché in nuovi enunciati estetici. Nei ritratti, così come nelle vedute urbane, l’artista si concentra sulla struttura compositiva dell’opera. Anche in questo caso, parte dal fondo, segnando lo spazio dei suoi interiors con vibranti campiture monocrome: Poi procede verso il primo piano, scandendo forme e superfici per progressive “illuminazioni”.
Contraddistinti da una vivida gamma di colori e da una suadente tessitura di pattern visivi, gli ultimi dipinti di Damioli ritraggono gli svaghi di una borghesia colta e cosmopolita. Visite ad acquari e pinacoteche, passaggi in centri commerciali, soste ai semafori e pause in gelateria scandiscono questa rassegna, tutta al femminile, di passatempi metropolitani. Sono quasi tutte donne, infatti, le protagoniste di questi ritratti. Donne assorte in attività che richiedono una certa dose di attenzione, come la lettura di un libro o di un biglietto d’auguri e la contemplazione di un’opera d’arte oppure donne immerse nei propri pensieri, sprofondate in un impenetrabile stream of consciousness. Il loro sguardo è sempre altrove, fuori dalla nostra traiettoria. E, così, noi rimaniamo sempre e solo spettatori esterni, osservatori distaccati di uno spettacolo, quello della pittura, di cui l’artista si dimostra abile regista. Damioli non scivola mai nell’eccesso d’espressione, evita di connotare eccessivamente i soggetti, insomma di distrarre l’attenzione dalla pittura stessa. Così, perfino quando si concede il piacere “colpevole” di un autoritratto, egli rimane fedele alla celebre massima di Flaubert, secondo cui “l’autore deve essere nella sua opera d’arte come Dio nell’universo, onnipresente e invisibile”.