di Ivan Quaroni
“L’essenziale sta nel banale”
(Hans Blumenberg)
È impossibile presentare il lavoro di Ben Patterson senza parlare di Fluxus, quel disomogeneo e a-sistematico movimento che si diffuse da un capo all’altro del globo durante gli anni Sessanta, coinvolgendo artisti americani, europei e asiatici in un turbine di azioni, concerti, eventi, mostre, letture, soirée, happening e pubblicazioni. Leggendo le note biografiche di Patterson, si trovano immediatamente i segni tipici della poetica Fluxus, come, ad esempio, l’interesse per la sperimentazione musicale. Ben Patterson, nato a Pittsburgh nel 1934, ha imparato a suonare il pianoforte dalla madre e il violino dal padre. In seguito, ha studiato contrabbasso, composizione e direzione d’orchestra all’Università del Michigan, per poi divenire contrabbassista solista in alcune orchestre sinfoniche canadesi. Nel 1960, all’inizio dei due anni (1960-1961) di permanenza a Colonia, Ben Patterson fa l’incontro più importante della sua vita, quello con il musicista John Cage, che lo indurrà a prendere in considerazione nuove e più radicali idee sull’arte. In verità, Cage divenne in seguito una figura centrale per molti artisti Fluxus, come Henry Flint, George Brecht, George Maciunas, Ben Vautier, Robert Filliou, Nam June Paik, Wolf Vostell, La Monte Young e altri. A John Cage è attribuita l’invenzione del primo happening nel 1952 (Theatre Piece No.1), sette anni prima che Allan Karpow coniasse il termine. L’evento, tenutosi al Black Mountain College, nel North Carolina, combinava varie azioni e ridefiniva in termini nuovi il rapporto tra il pubblico e la rappresentazione.
Enrico Pedrini descrive così l’evento: “Le varie azioni si svolgevano intorno al pubblico e anche tra gli spettatori. John Cage, in abito e cravatta neri, leggeva una conferenza su Meister Eckhart da un leggio collocato su un lato dell’ambiente. Mary Caroline Edwards declamava solennemente dei versi da una scala a pioli. Altri attori, nascosti tra il pubblico, si alzavano a turno in piedi e recitavano brevi battute. David Tudor suonava il piano. Sul soffitto venivano proiettate immagini cinematografiche, mentre Robert Rauschenberg metteva vecchi dischi su un fonografo portatile. Merce Cunningham improvvisava una danza intorno al pubblico”[1]. Per John Cage la musica si avvicina alla vita, poiché essa esiste già nella realtà, ed ha pertanto bisogno soltanto di essere identificata o indicata. Su questo concetto si modella anche l’idea Fluxus di un’arte coincidente con la vita stessa. “L’artista non deve fare della sua arte una professione”, dichiarava George Maciunas. “Tutto è arte e tutti possono farne. L’arte deve occuparsi di cose insignificanti, deve essere divertente, accessibile a tutti”. Come ha scritto Sandro Ricaldone, citando le parole di un manifesto, “Fluxus nega la distinzione fra arte e non-arte, nega l’indispensabilità, l’esclusività, l’individualità e l’ambizione dell’artista, nega ogni aspirazione di significato, varietà, ispirazione, perizia tecnica, complessità, profondità, grandezza, ogni valore istituzionale e di mercato”[2].
Fluxus si distingue dalla tradizionale impostazione delle avanguardia per il suo fondamentale disinteresse a rinnovare l’arte sulla base di nuovi principi. Secondo Gino Di Maggio, che ebbe modo di conoscere e frequentare molti dei protagonisti di quel tempo, l’approccio di Fluxus era “totalmente polemico nei confronti di un sistema culturale il cui rovesciamento comporta l’assunzione della vita quotidiana al centro dell’attività artistica: ogni gesto, ogni atto della quotidianità poteva diventare, nello spirito Fluxus, […] un momento fortemente creativo. Il gioco, l’ironia, tutto quello che aveva un rapporto con le cose che si fanno nella vita quotidiana, diventavano immediatamente momenti importanti da sottolineare”[3].
La coincidenza tra arte e vita propugnata da Fluxus ci conduce a considerare con attenzione un altro particolare della vita di Ben Patterson. In alcune note biografiche, si legge che l’artista americano si ritira dalla scena artistica nel 1968 per fare una vita ordinaria a New York, avere una famiglia e seguire la “vera politica”. Durante i due decenni successivi, infatti, Patterson intraprende con successo la carriera di direttore artistico, seguendo il lavoro di compagnie teatrali, musicali e di ballo e facendo il consulente per diverse arts funding agencies municipali, statali e federali. Insomma, improvvisamente, Patterson si allontana da Fluxus, riduce drasticamente i suoi interventi artistici (parteciperà solo agli eventi connessi con il XX anniversario di Fluxus a Wiesbaden nel 1982 e poi alla Biennale di San Paolo del Brasile del 1983) e si butta a capofitto nella vita reale, per riprendere l’attività espositiva solo nel 1988 con una mostra di assemblages alla Galleria Emily Harvey di New York. Se non si trattasse di un artista della sfera Fluxus, e per giunta di uno dei più significativi, si sarebbe tentati di interpretare quel periodo di cesura artistica come un momento di crisi. Invece, nel caso di Patterson, si avverte il senso di continuità tra le azioni e le idee maturate nel contesto delle esperienze Fluxus. Se, infatti, arte e vita coincidono, allora non vi è alcuna differenza tra il Ben Patterson che suona il contrabbasso in orchestre sinfoniche canadesi, quello che realizza Paper piece o Variation for Double-Bass, quello che collabora con Robert Filliou per esibire i suoi Puzzle Poems e che, con l’incoraggiamento e l’aiuto di Daniel Spoerri, pubblica Methods and Processes e quello, infine, che s’impegna in una carriera di manager e direttore artistico. Non è un caso che il termine Fluxus, coniato da George Maciunas a Wiesbaden nel 1962, si riferisca alla nozione eraclitea di movimento e di costante trasformazione di tutte le cose, secondo la massima per cui “Non ci si può immergere due volte nello stesso fiume”. Gli artisti che orbitarono nella galassia Fluxus, cercarono di portare in ogni modo la vita dentro l’arte e l’arte dentro la vita, muovendosi su un terreno di Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale). Attraverso la valorizzazione di una pratica interdisciplinare, che scardina i confini tra musica, teatro, pittura, scultura, performance, happening, reading, fotografia, collage e assemblage, il modus operandi di Fluxus si trasforma in un vero e proprio modus vivendi. Ecco, allora, che il momentaneo allontanamento di Patterson dal coté artistico, assume il valore di una affermazione ancor più radicale dell’equazione arte-vita.
Altro elemento interessante della biografia di Ben Patterson è la sua attitudine nomadica. L’artista, infatti, studia all’Università del Michigan, suona contrabbasso in Canada, Stati Uniti e Germania, vive a Colonia dal 1960 al 1961 e, alla fine del 1961, si trasferisce a Parigi dove lavora per un anno con Robert Filliou. Nel 1962 è con Maciunas a Wiesbaden, dove partecipa alla fondazione di Fluxus. Dal 1968, anno in cui si ritira dalle scene, fino alla fine degli anni Ottanta vive a New York, anche se nel 1984 trascorre sei settimane in Patagonia. Infine, nei primi anni Novanta si trasferisce definitivamente a Wiesbaden, dove vive tuttora. Nel 2004 Patterson festeggia il suo settantesimo compleanno organizzando un tour di sette settimane sulla ferrovia Transiberiana, durante le quali realizza dieci performance. Il viaggio parte da Mosca, attraversa la Mongolia, fa tappa a Pechino, Shanghai, Osaka, Kobe e Tokyo per concludersi, con una grande festa, sulla cima del Monte Fuji. L’idea di un grande concerto viaggiante in varie città lungo il tragitto della Transiberiana era un vecchio sogno di George Maciunas. In verità, gli eventi Fluxus avevano ricalcato fin dall’inizio la struttura tipica delle tournee e dei festival musicali, basti pensare al Fluxus International Festspiele Nuester Musik, tenutosi nel settembre 1962 all’Hörsaal Städtischen Museum di Wiesbaden, oppure al Festival of Misfits, che poco dopo venne organizzato alla Gallery One di Londra, occasioni alle quali aveva partecipato anche Ben Patterson in qualità di musicista e performer. Nell’introdurre questa nuova mostra italiana di Ben Patterson, si dovrà quindi tenere conto dello stretto legame tra le opere e le esperienze biografiche dell’artista. I lavori di Patterson, infatti, si riferiscono spesso a eventi ed esperienze della sua vita, come è accaduto per i collage eseguiti in seguito al Grand Tour per il suo settantesimo compleanno o per le opere realizzate durante il periodo di ritiro dalle scene e poi esposte da Emily Harvey a New York.
Insomma, nell’opera di Patterson c’è sempre un legame forte con la realtà, sia essa biografica o geografico-culturale, come nel caso di alcuni lavori realizzati esplicitamente per questa occasione, che prendono spunto da personaggi e luoghi emblematici della città di Bergamo. Si tratta di una serie di collage su tela in cui ricorrono immagini delle antiche mura cittadine o di altri monumenti storici di Bergamo. Opere come Dreaming to became famous (2006), Serious conversation (2006) e Environments and context (2006), giusto per fare qualche esempio, si offrono allo sguardo dello spettatore come brani di conversazione tra Cesare Fioretti (padre del gallerista Marco Fioretti e fondatore della galleria), il musicista classico Gaetano Donizetti e la maschera Arlecchino, sui più disparati argomenti, dall’arte alla guerra, dalla religione alla politica. Invece, in Meta-Art, Meta-Physics, Meta-Fluxus (2006) compaiono alcuni ritagli fotografici che documentano una performance di Ben Patterson e Peter Kotik a Vienna nel 1997. Si tratta della famosa performance One for Violin di Nam June Paik, che, come recitano le parole incollate sul quadro, “pone diversi quesiti filosofici… o si rifiuta di rispondere a qualsiasi quesito”. Qui, come in molti altri lavori presenti in questa mostra, Ben Patterson tratta temi e soggetti con un grande senso dell’umorismo, una qualità tipicamente Fluxus che serve a sdrammatizzare il tono serioso di certe riflessioni, ma soprattutto ad annullare dal quadro qualsiasi componente auratica. Infatti, se c’era un significato in Fluxus, questo consisteva, come ha affermato Gino Di Maggio, “nel tentativo di cancellare, una volta per tutte, il concetto di ispirazione, di decostruire e decodificare in qualche modo il linguaggio artistico”[4]. Ironica e demitizzante è anche la sequenza di collage intitolata Human Brain (2007), dove la disneyana Minnie ci invita a comprendere il cervello umano attraverso la disamina delle funzioni dei cinque sensi, rappresentati da oggetti d’uso comune, come una tavolozza da pittore (vista), un misuratore di pressione (olfatto), uno xilofono (udito), ognuno inserito in una carrellata di nonsense visivi che culmina nel finale tributo all’amore (tatto?).
Negli assemblage di Patterson lo scherzo e la boutade sono dietro l’angolo e lo humor è proposto come un viatico che ci permette di tollerare le contraddizioni del presente. Lo humor è anzi la strategia di sopravvivenza per eccellenza, mentre la banalità del quotidiano diviene il luogo della riscoperta dei significati. La tattica duchampiana del ready made, adottata da molti artisti di Fluxus, può quindi essere interpretata come una riscoperta del quotidiano attraverso gli oggetti più prosaici. Per Fluxus, tuttavia, un orinatoio resta un orinatoio, esso non diventa opera d’arte per il semplice fatto che l’arte e la vita si equivalgono e, anzi, coincidono. In un certo senso, molti oggetti di Patterson hanno un valore tautologico. Gli strumenti musicali, gli accendini, i misuratori, i dadi da gioco non rappresentano altro che se stessi ma, allo stesso tempo, sono segni all’interno della struttura di ogni singola tela. Certo, l’oggetto può diventare anche un segno di riferimento o una citazione, come nel caso di My New Violin (2006), che rimanda sia alle scomposizioni cubiste di Braque sia alla già citata performance di Nam June Paik. Tuttavia, le opere di Patterson si affidano sovente a un linguaggio semplice, immediato e privo di filtri simbolici o allegorici, come dimostrano gli oggetti su tela della serie Cheap Art (2006), che propugnano un’estetica popolare, volutamente kitsch, ma estremamente riconoscibile. D’altra parte, come ricorda Sandro Ricaldone[5], Hegel scriveva nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito che “il noto in genere, appunto perché è noto, non è conosciuto”. Il che, forzando la mano, equivale a dire, con le parole di Blumenberg, che “L’essenziale sta nel banale”[6], ovvero nelle piccole cose senza importanza. In una parola, nella vita ordinaria. Quella stessa vita ordinaria alla quale Patterson si dedicò con soddisfazione per quasi un ventennio.
[1] Enrico Pedrini, estratto della trascrizione del suo intervento nell’incontro di studio “Gli anni ’50 e Fluxus”, tenutosi presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Genova il 10/11/1988, in margine all’esposizione “Fluxus o del principio d’indeterminazione” (ottobre-dicembre 1988), organizzata dall’Unimedia di Caterina Gualco e dalla galleria Leonardi/V-idea di Rosa Leonardi.
[2] Sandro Ricaldone, Per complicare l’intreccio, nel catalogo della mostra FLUXUS O DEL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE, ed. Studio Leonardi/ Caterina Gualco – Unimedia, Genova, 1988.
[3] Gino Di Maggio, estratto della trascrizione del suo intervento nell’incontro di studio “Gli anni ’50 e Fluxus”, tenutosi presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Genova il 10/11/1988, in margine all’esposizione “Fluxus o del principio d’indeterminazione” (ottobre-dicembre 1988), organizzata dall’Unimedia di Caterina Gualco e dalla galleria Leonardi/V-idea di Rosa Leonardi.
[4] Ibidem.
[5] Sandro Ricaldone, Per complicare l’intreccio, nel catalogo della mostra FLUXUS O DEL PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE, ed. Studio Leonardi/ Caterina Gualco – Unimedia, Genova, 1988.
[6] Hans Blumenberg, Il sorriso della donna di Tracia, pag. 120, ed. Il Mulino, Bologna, 1988