Black Death (2010)

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Osmund è un novizio di un monastero devastato dalla peste. Segretamente innamorato, fa scappare la sua donna lontano dal monastero per cercare di salvarla dall’epidemia e si offre volontario per accompagnare la spedizione di mercenaria di Ulric, che deve verificare per conto della Chiesa la veridicità delle voci che affermano che un villaggio in quelle terre lontane è immune al contagio. Osmund scoprirà presto che la sua amata Averil è caduta preda di briganti locali e che la spedizione di Ulric non è li per verificare se davvero un villaggio è immune al contagio, ma per catturare ed uccidere la strega Langiva, che sembrerebbe capace di riportare in vita i morti. (Fonte: Wikipedia)

Black Death è un ottimo film, di quelli che passano più o meno inosservati al pubblico generalista, ma che gli appassionati di genere dovrebbero tassativamente recuperare.
Ci sono ottime atmosfere, che trasudano di un medioevo per una volta tanto realistico. Il che vuol dire soldataglia coi denti marci, storpi e mutilati, fraticelli interessati più alle faccende carnali che non a quelle spirituali, cavalieri fanatici ma non privi di una distorta sacralità.

E poi c’è lei, la Peste Nera (Black Death, appunto), l’attrice principale del film. Una pestilenza che aleggia soprattutto nella prima metà del film, tratteggiando uno scenario postapocalittico ante-litteram. I bubboni del contagio sbucano all’improvviso e non guardano in faccia nessuno, obbligando i sani a emarginare o scacciare gli infetti. Come uno zombie movie, insomma, ma senza zombie.
La Fine del Mondo, si sa, porta con sé il delirio degli araldi della morte. Non che il medioevo fosse già di suo povero di deliri e superstizioni. Perché dietro la croce del Cristo sopravvivevano le superstizioni, i pregiudizi sulle donne e sulle comunità rurali, sulle malattie e su chi non ne veniva colpito.
Il regista prende il meglio di queste ottime premesse e mette insieme un eterogeneo gruppo di personaggi, primari e secondari, per una volta credibili e scevri da ogni tratto macchiettistico o pulp.
Perfino i combattimenti, pochi e ben dosati, sono orchestrati con realismo e spietatezza, senza concessioni all’estetica sterile e a improbabili acrobazie marziali.

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La distinzione tra Bene e Male è poco più che teorica, le parti si confondono, si sovrappongono e si mischiano. Lo spettatore è forse portato a simpatizzare per il fraticello innamorato, Osmund, o per il cavaliere coraggioso, Ulric, ma si tratta comunque di un tifo compromesso dalla consapevolezza che lo zelo inquisitorio voluto dalla Chiesa è sbagliato e riprovevole.
Quindi, parteggiando per quelli che sembrano “buoni”, ci si pone nei panni di coloro che alla fin fine agivano come dei boia al servizio di un potere temporale che temeva di essere superato dalla luce della ragione.
Ed è nella “strega” che la ragione si manifesta, mascherata da magia, ma in realtà concreta conoscenza della psicologia umana e delle arti erboristiche e apotecarie. Rimane il dubbio – e anche questo è un pregio – riguardo alla vera natura della strega Langiva. Fine manipolatrice per un fine autodifensivo, oppure intrinsecamente malvagia?
Sta di fatto che il Male, voluto o meno, trova terreno fertile nella violenza e nell’ignoranza. Il regista sceglie di dimostrare questo postulato, regalandoci un finale tra i migliori di quelli visti negli ultimi anni. Triste e inquietante allo stesso tempo.

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Bravi tutti gli attori, dalla soldataglia al servizio di Ulric all’affascinante e melliflua Langiva. Ottimo il giovane Eddie Redmayne nel ruolo del frate innamorato (e anche in quello della sua metamorfosi finale). Solita nota di merito per Sean Bean, che sembra nato per interpretare ruoli come questo, nel bene e nel male.
Singolare anche la presenza di Carice Van Houten, anch’essa nel cast di Game of Thrones, come Sean Bean. Quasi un test generale per il serial che sta riscuotendo grande
Film da recuperare, assolutamente.

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