Claudia Haberkern, Kudo Masahide, Brigitta Rossetti: La possibilità di un’isola.

di Ivan Quaroni

A good artist should be isolated. If he isn’t isolated, something is wrong.”

(Orson Wells)

Untitled

Nel territorio di Torrone della Colombara, nel vercellese, si coltiva il riso fin dal XV secolo. Ancora oggi, nei periodi in cui i campi sono in sommersione, la Tenuta, proprietà della famiglia Rondolino dal 1935, assume l’aspetto di una vera e propria isola circondata dalle acque e collegata alla strada provinciale solo da una sottile lingua di terra. Questo luogo, che ora ospita una moderna riseria, in cui convivono antiche tecniche di produzione e avanzate tecnologie, fu un tempo popolato dalle famiglie che vi lavoravano. Con le sue abitazioni, i suoi laboratori, la sua scuola e i dormitori per le mondine, la Colombara doveva essere senz’altro meno silente e metafisica di quanto appaia oggi in certe assolate ore meridiane. A ben vedere, nonostante il periodico andirivieni di visitatori, la Colombara sembra un posto adatto a favorire il lavoro e la concentrazione. Arrivandoci in automobile in una tarda mattina d’estate, ho avuto l’impressione che la sua immensa corte quadrata somigliasse a una piazza d’armi deserta, con il corpo centrale occupato dalle camerate e i bracci laterali con le scuderie e la fureria. Invece, è un luogo di pace assoluta, un’isola di quiete operosa, che obbedisce a un ritmo di vita distante anni luce da quello assai più nevrotico e mondano delle città. Ma un’isola, si sa, non è solo un luogo fisico, geografico, caratterizzato da una particolare morfologia, ma anche e soprattutto un topos, una metafora. Da Omero a Thomas Moore, da Daniel Defoe ad Alexandre Dumas, da Robert Louis Stevenson fino a William Golding, la letteratura ha interpretato l’isola, di volta in volta, come un luogo di fuga e di libertà, di detenzione ed esilio, oppure come un paradiso naturale o un laboratorio utopico, in cui è possibile sperimentare nuovi modelli di società. In ogni caso, essa è stata sempre percepita come una singolarità rispetto a ciò che la circonda, una sorta di anomalia, che però conserva con le terre continentali un legame d’intermittenza e discontinuità. In pratica, il carattere precipuo di ogni isola è il suo stato di intrinseca difformità. E in questo la Colombara non fa eccezione. Perché un’isola è, sopra ogni cosa, immagine sintomatica di uno status mentale, di una condizione interiore.

La possibilità di un’isola – titolo pretestuosamente sottratto a un celebre romanzo di Michel Houellebecq – è un progetto voluto da Claudia Haberkern, artista che da venticinque anni vive all’interno della Colombara, per valorizzare e aprire al pubblico gli spazi della tenuta e, al contempo, creare un confronto e un dialogo con gli artisti Kudo Masahide e Brigitta Rossetti.

Figura traslata della solitudine e del distacco, l’isola è un tropo letterario che rimanda necessariamente anche alla condizione creativa, che necessita, appunto, di un ambiente (fisico e mentale) raccolto. La possibilità di un’isola è, dunque, allusione a uno stato necessario d’immersione (e introversione) che consente all’artista di uscire, almeno momentaneamente, dal flusso dei pensieri e delle attività ordinarie.

La stanza di Claudia Haberkern

La stanza di Claudia Haberkern

Da questa necessità nasce il lavoro di Claudia Haberkern, le cui sculture sono il riflesso di una ricerca della “verità”, scaturita da un’esperienza intima e diretta dei suoi soggetti, sovente connessi al mondo delle forme organiche e naturali. Il suo percorso artistico inizia negli anni Ottanta, nell’ambito delle sperimentazioni attoriali del Living Theater, dove il training proposto agli allievi è basato sulla ricerca e appropriazione di quei sentimenti e quelle sensazioni che rendono più credibile l’interpretazione dei personaggi. Forse proprio questa palestra attoriale, fondata sull’immedesimazione, finisce per influenzare l’approccio artistico di Claudia Haberkern. Nel periodo passato con il Living Theater, infatti, l’artista comprende come il corpo sia, in effetti, un serbatoio di memorie primordiali, un collettore di conoscenze che nulla hanno a che fare con i processi cognitivi intellettuali. “Probabilmente, il fatto che alcune mie sculture appaiano come traduzioni di movimenti corporei”, afferma lei, “è il risultato dell’allenamento fisico di quel periodo”. Ancor prima di visualizzare le proprie opere, l’artista sperimenta una sorta d’identificazione fisica con le forme e i materiali che poi modellerà attraverso un iter lungo e complesso. Claudia Haberkern raramente esegue un disegno preparatorio.

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Claudia Haberkern, Herald of spring (summer’s distillation), tecnica mista con resina, carta, fibre vegetali, 80×58 cm., 2013

Parte, invece, da un piccolo bozzetto in argilla, che viene via via ripreso e talvolta ingrandito. Da questo, ricava uno stampo, un negativo, in cui viene colata la resina. Una volta solidificato in sottili strati trasparenti, il materiale plastico è ulteriormente lavorato con l’aggiunta di carte e fibre vegetali. Il risultato finale è, quindi, la conseguenza di un lento processo in cui le sculture passano attraverso diversi stadi di metamorfosi formale. Si può dire che non solo l’immagine finale contenga allusioni al mondo organico, ma che il procedimento stesso di esecuzione obbedisca a un ritmo trasformativo analogo a quello dei processi naturali. Ad esempio, le sculture pensili della serie Summer’s distillation, in cui è evidente l’allusione al mondo delle forme floreali e vegetali, danno l’impressione di essere costruite con materiali naturali, invece che con resine d’origine industriale. Questi strani fiori (dischiusi per noi sotto cieli più belli[1]), somigliano a trasparenti filigrane trafitte dalla luce, con le corolle di petali leggeri, fluttuanti come le carte di una lanterna cinese.

Riflettono i processi metamorfici dell’ecosistema anche le sculture della serie My Breath goes everyplace, caratterizzate da uno slancio verticale che ricorda ora i fusti e gli steli arborei, ora i gusci di larve e insetti. Sono opere altrettanto aeree, dalle superfici vibranti, innervate d’increspature che suggeriscono un senso di fremente vitalità. Insieme alla luce, impalpabile, eppure fondamentale ingrediente delle sculture dell’artista, il movimento (o la sua illusione) è forse la caratteristica più evidente del suo linguaggio. In particolare, nelle sculture in terracotta intitolate Canzoni in terra – d’amore e di vita, ritornano quelle dinamiche torsioni e quegli avvolgimenti anatomici, che hanno caratterizzato larga parte della sua ricerca e che confermano il ruolo primario che Haberkern conferisce al corpo, quale forma suprema d’intelligenza tattile. “Modellando l’argilla”, racconta, infatti, l’artista tedesca, “faccio un’esperienza che non smette mai di stupirmi: quella delle mani che traducono in un oggetto tangibile emozioni che, altrimenti, non avrebbero forma, colore, consistenza e temperatura”. In definitiva, per Claudia Haberkern la scultura resta un’esperienza vitale, assimilabile per certi versi alla poesia (Gedicht) perché, a differenza della pittura (spesso tendente alla narrazione), essa deve essere capace di condensare tutto, sinesteticamente, in una sola, efficace, intuizione formale.

La stanza di Kudo Masahide

Stanza di Kudo Masahide

È curioso come il corpo sia una questione centrale anche nella concezione artistica di Kudo Masahide, che appartiene a una cultura del tutto diversa da quella europea continentale. Per l’artista giapponese, infatti, dipingere è una pratica essenzialmente fisica, radicata nei movimenti e nei gesti, più che nelle idee. Quest’attitudine, se vogliamo anti-intellettualistica, mira a riconoscere il primato della Natura sulla Cultura, riconducendo l’arte in un ambito più prossimo alle forze primigenie dell’esistenza. Il corpo, con le sue memorie diventa, così, la sorgente dell’espressività pittorica di Masahide, in cui segni gestuali ed elementi figurativi si fondono all’insegna di un’arte che annulla i confini tra subconscio e coscienza vigile. Nelle carte e nelle tele dell’artista rivive, in qualche modo, la fluida impermanenza delle forme naturali e delle metamorfosi organiche, attraverso una congerie di tracce, macchie, segni apparentemente casuali, che poi si organizzano in brandelli anatomici e fisionomie umane.

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Kudo Masahide, The Forest of the Memory II, olio su cotone grezzo, 162×130,3 cm., 2014

Nei suoi lavori più recenti, quelli della serie Forest of the Memory, eseguiti a olio su tela grezza, le figure sembrano affiorare dal magma cromatico e calligrafico del fondo come evanescenti presenze, a testimoniare una vitalità mai sopita. Per Kudo Masahide dipingere con spontaneità, senza premeditazione, significa ricollegarsi alla matrice originaria e dare voce alle forze invisibili che presiedono all’ordine e al funzionamento dell’universo.

Come molti dei grandi maestri cinesi e giapponesi del passato, Kudo Masahide non rappresenta concetti filosofici o costrutti culturali, ma cerca, piuttosto, di tradurre in arte le sue intuizioni più profonde. Il critico Aart van Zoest ha giustamente scritto che “la meditazione è un’abitudine costante nella vita di Masahide Kudo e produce effetti sulla sua arte”, ma a me pare che il suo stesso modo di fare arte sia, in fondo, un modo di meditare. Un modo che limita l’impatto delle produzioni mentali, delle idee e dei pensieri che costituiscono un ostacolo alla comprensione profonda del mondo.

La stanza di Brigitta Rossetti

La stanza di Brigitta Rossetti

Brigitta Rossetti indaga, con sguardo lirico e partecipe, i complessi rapporti di corrispondenza tra uomo e ambiente. Per l’artista, che lavora in un ex fienile immerso nella campagna piacentina, il paesaggio, con la sua infinita varietà di forme, costituisce la principale fonte d’ispirazione per creare progetti che spaziano dalla pittura alla scultura, dall’installazione al ready made. Lontana da stilemi mimetici e descrittivi, l’artista sembra piuttosto filtrare la visione e l’esperienza della natura attraverso un approccio poetico, che esalta la bellezza e l’etica delle forme naturali, evidenziandone, al contempo, l’estrema fragilità e precarietà. I suoi giganteschi fiori, dipinti con una pittura densa e stratificata, invitano lo spettatore a riflettere sull’odierna condizione di alienazione dell’uomo rispetto all’ambiente, insinuando, allo stesso tempo, un forte sentimento di nostalgia per l’equilibrio perduto. I monumentali dipinti della serie Children’s Gardens, con le piccole sedute poste davanti alle grandi tele, offrono allo sguardo innocente dei bambini la visione della semplice maestosità della natura. Lavori come Fiori della coscienza, Fiori di Arlecchino e Fiori di creta, sono, a tutti gli effetti, dei veri e propri envirnoment, delle ambientazioni avvolgenti, che sembrano dilatare virtualmente lo spazio pittorico per annullare la distanza tra spettatore e opera.

Brigitta-Rossetti,-Fiori-di-Arlecchino,-acrilico-su-tela-montata-su-legno-con-graffette-e-supporto-in-ferro,-pigmenti-e-seggiolina-in-legno,-153x275-cm.,-2013

Brigitta Rossetti, Fiori di Arlecchino, acrilico su tela montata su legno e supporto in ferro,-pigmenti e-seggiola in legno, 153×275-cm., 2013

Per Brigitta Rossetti, infatti, la natura è uno spazio transazionale, di relazione, che richiede sempre un rapporto di mutuo scambio. Per questo, molte delle sue opere sembrano quasi eludere gli schemi della rappresentazione bidimensionale, configurandosi come installazioni. È il caso di Albero immortale, Nudità e Paesaggio quasi bianco, in cui i dipinti sono montati su vecchie scale di recupero, a suggerire quasi l’idea di un’ascensione, di uno sforzo di elevazione spirituale da compiersi nell’atto contemplativo della natura. Libro di quattro pagine è invece una pitto-scultura in forma di messale, che lo spettatore può consultare per celebrare una sorta d’intimo rito di riappacificazione con le forze del creato.

Chiude idealmente la mostra, l’opera intitolata Ipotesi di un’isola, una primitiva imbarcazione, assemblata con materiali poveri come legno, ferro e pietre di recupero, quasi a suggerire uno stato di precario galleggiamento esistenziale. La possibilità di un’isola è, appunto, un’ipotesi di vita, un’eventualità di scelta nella miriade di opzioni che il mondo ci offre. Ma è forse una delle più impervie nella ricerca della verità. Soprattutto perché, come scriveva Marguerite Yourcenar, “c’è il momento in cui ogni scelta diventa irreversibile”.[2]

Info:

Mostra realizzata in collaborazione con:

ACQUARELLO. IL RISO

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Inaugurazione domenica 28 settembre, dalle ore 14.30

In mostra dal 28 settembre al 26 ottobre 2014

Orari: lunedì, giovedì e venerdì dalle 14.30 alle 16.30; sabato e domenica dalle 11.00 alle 17.00 o su prenotazione

Tenuta Colombara, Livorno Ferraris (VC)

colombarahul01@colombara-hulls.eu,

Tel. 0161 477832

Cell. 348 7609980

Informazioni stradali

Autostrada A4: uscita Borgo d’Ale, seguire le indicazioni per Bianzè-Livorno Ferraris, direzione Trino

Autostrada A26: uscita Vercelli Ovest, seguire le indicazioni per Crescentino, alla rotonda della Frazione Castell’Apertole svoltare a destra e proseguire per 1km

Google Maps: La Colombara (Livorno Ferraris) Latitudine : 45.281729 | Longitudine : 8.084918

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[1] Charles Baudelaire, La morte degli amanti, in I fiori del male, traduzione di Attilio Bertolucci, Milano, Garzanti, 2006.

[2] Marguerite Yourcenar, Archivi del Nord, Traduzione di Graziella Cillario, Einaudi, Torino, 1982.

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