Un saggio che racconta in otto storie esemplari la vita dei figli dei fedelissimi di Hitler, nati tra il 1927 e il 1944 e vissuti in un’infanzia dorata, garantita loro da padri pressoché onnipotenti. Molti hanno scoperto la verità sui propri genitori solo dopo la fine della guerra. Le reazioni sono state le più diverse: c’è chi, come la figlia di Himmler, ha dedicato la propria vita alla riabilitazione della figura paterna o chi, come il figlio di Höss, è diventato un fiero negazionista; ma anche chi, come Rolf Mengele, ha deciso di cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna, o chi ha scelto la via della fede, diventando missionario o convertendosi all’ebraismo.
Uno degli aspetti meno discussi e più interessanti del Secondo Dopoguerra riguarda il ritorno degli “sconfitti” a una vita normale, ovvero alla quotidianità belligerante. Centinaia di migliaia di soldati tedeschi, giapponesi, italiani (più quelli di diversi paesi appartenenti all’Asse) si ritrovarono improvvisamente senza più un paese da difendere, senza più beni personali, spesso senza amici e familiari, e a volte senza nemmeno una città in cui tornare.
L’ottimo saggio di cui vi parlo oggi parte da un presupposto importante: la Seconda Guerra Mondiale ha identificato a lungo – in un certo senso ancora oggi – l’intero popolo tedesco col nazismo. Succede ancora in tempi moderni, per quanto la Germania sia oramai una democrazia tra le più solide, moderne e progressiste. Eppure molti non-tedeschi non riescono a liberarsi dello stereotipi “tedesco=nazista.”
Un’eredità pesantissima ed esclusiva del paese che, per dodici terribili anni, si identificò con Adolf Hitler.
Raramente succede che parlando di un russo si citino i gulag, o che pensando a un giapponese si faccia in automatico il parallelismo col Massacro di Nanchino. E i francesi? Nessuno li identifica coi tanti orrori commessi durante il periodo coloniale (il medesimo discorso è applicabile a Olandesi, Belgi etc).
Invece, se dieci persone pensano a un tedesco, almeno tre o quattro di esse lo associano al nazionalsocialismo.
Che succede quando entrano in gioco quei tedeschi “speciali” i cui genitori sono stati i primi attori del genocidio nazista?
Che vita può esserci per individui quali il figlio di Martin Bormann, la figlia prediletta di Himmler, la primogenita del feldmaresciallo Goring eccetera eccetera? In che modo il loro retaggio condizionerà le loro vite?
E – ancora – la banalità del Male è in qualche modo geneticamente trasmissibile?
L’autrice de I Figli dei Nazisti risponde a tutti questi piccoli quesiti storici, rivivendo la storia post-bellica di una manciata di questi “figli d’arte”, seguiti momento per momento, dalla nascita agli anni del consenso, fino sconfitta del Reich alla loro vita nella Germania de-nazificata.
L’autrice racconta otto storie, divise tra quelle che parlano di senso di colpa (o quantomeno di responsabilità) per i crimini commessi dai padri, e altre che raccontano di figli rimasti fedeli alla memoria della figura paterna, pur con la consapevolezza che essa sia artefice della morte di migliaia di persone.
Il nazismo, in particolare, si distingue da altri regimi, perché adottò il progetto della “soluzione finale” degli ebrei. Non si limitò quindi a eliminare i nemici politici, gli oppositori, la stampa non allineata, bensì studiò un genocidio su vastissima scala, organizzato con meticolosità industriale e con freddo calcolo. Per questo gli artefici della soluzione finale rappresentano – ancora oggi – quanto più di vicino al Male possa esistere, quantomeno nel genere umano.
Gudrun Himmler
Eppure leggiamo storie come quella di Gudrun Himmler, figlia del Reichsführer delle SS, forse il principale artefice della Shoah. Gudrun non ha mai rinnegato la memoria del padre, anzi, lo idolatra e spera un giorno di dimostrare alla Germania che il suo fu un comportamento patriottico e onorevole (!). Nel mentre Gudrun è diventata una figura di culto per i reduci delle SS e del nazismo in generale, con tanto di una festa annuale, celebrata tra i monti austriaci, per ricordare i bei tempi della svastica.
Pare che in questi raduni Gudrun venga omaggiata come una sorta di divinità pagana della razza superiore, e che lei assorba come una spugna tutti i racconti degli oramai pochi reduci della Seconda Guerra Mondiale.
La vita della figlia di Himmler, ben narrata nel libro di cui vi parlo oggi, si è sviluppata negli anni dello NSDAP al potere. Lei, classe 1929, fu per anni la nipotina acquisita di “zio Hitler” e l’amatissima principessina del potente Reichsführer delle SS. Himmler non parlava mai dello sterminio degli ebrei in famiglia, ma diceva soltanto di essere oberato di lavoro per il bene superiore della Germania.
Quando Gudrun fu messa al corrente del genocidio progettato dal padre rifiutò di prenderne atto. Non rinnegò mai il suo cognome, anche se gli Alleati gliene avevano attribuito uno di comodo, per tentare di reintrodurla nella società civile.
Dopo anni trascorsi da paria, proprio per colpa del suo nome, Gudrun è stata introdotta in un ricco e occulto giro di nostalgici del nazionalsocialismo. Circolo in cui la “schillernde Nazi-Prinzessin” ha assunto quasi subito un ruolo simbolico, ma anche da attivista. Pare infatti che Gudrun abbia contribuito alla fuga di diversi ex criminali di guerra in Sud America, attraverso le cosiddette rat lines.
Ecco, questa è solo una delle otto storie narrate in I Figli dei Nazisti.
Ce ne sono anche di opposte, come per esempio quella di Martin Adolf Bormann Junior, figlio del segretario oscuro dello NSDAP, quel Bormann che svanì nel nulla dopo la conquista di Berlino da parte dei sovietici. Martin Junior, oltre ad aver rinnegato i crimini paterni, ha cercato rifugio nella fede, diventando un sacerdote.
Il libro è interessantissimo. Se amate questo genere di argomenti, vi consiglio di leggerlo.
Lo trovate qui (in cartaceo e in versione ebook).
29 Sep 1960 -Martin Bormann, Jr. — Image by © Hulton-Deutsch Collection/CORBIS
Articolo di Alex Girola: https://twitter.com/AlexGirola
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