Questo post vuole essere una specie di risposta a quello pubblicato dall’amico e collega Germano, pochi giorni fa.
A scanso di equivoci vi informo che Germano è anche l’editor dei miei romanzi e racconti più apprezzati, da Grexit Apocalypse a Imperial. Non solo: con lui collaboro alla gestione di progetti narrativi di lunga durata e di conclamato successo, per esempio 2MM e Darkest.
Come se non bastasse, a me piace quello che scrive e come lo scrive (ci torneremo a breve). Del resto basta leggere un lavoro come Starlite, la sua ultima creazione, per capire che ci troviamo davanti a un pregevole autore.
Eppure io e Germano abbiamo degli stili narrativi diversissimi. Quasi agli antipodi. Credo che la cosa si noti: pur amando scrivere dei medesimi argomenti, adottiamo registri diversi.
Ad esempio:
Io vado anche oltre, visto che personalmente, quando adopero la terza persona, non apprezzo molto indulgere in riflessioni personali, ovvero nel pensiero o nella coscienza del personaggio; c’è chi lo fa per aiutare a capire il carattere del protagonista, che al contrario amo rendere palese attraverso la gestualità e addirittura attraverso le reazioni psicosomatiche. (dall’articolo di Germano)
Chi ha letto almeno un racconto di Germano sa che quel che afferma corrisponde alla pura e semplice verità.
Chi ha letto qualcosa di mio sa anche che io vado in direzione opposta. Uso volentieri i pensieri e le riflessioni personali dei miei personaggi per “sviluppare” il loro carattere, soprattutto se si tratta di caratteristiche ironiche o sarcastiche.
A dire il vero si tratta di una peculiarità che ho sviluppato negli anni. Nei miei primi racconti professionali evitavo questo genere di escamotage.
E ancora:
Jill, la nostra protagonista, rincasa dopo una giornata passata al laboratorio di tatuaggi dove lavora.
Entrando, visto che il Punto di Vista è strettamente limitato su di lei, Jill non si metterà mai e poi mai a descrivere la sua casa, perché la conosce già, le è familiare, è abituata a quella vista. L’unica cosa che potrebbe intrigarla, rientrando a casa, sarebbe il trovare un particolare fuori posto, o una perdita d’acqua, o una lampadina in corto circuito.
Diversamente, non c’è ragione per la quale il personaggio debba mettersi a descrivere o a pensare a ciò che per lui/lei è ovvio. (dall’articolo di Germano)
Anche qui, io mi muovo in senso contrario.
Abbondo nel dare informazione contestualizzate, quando è necessario trasmettere al lettore una precisa idea di “dove” e cosa sta vedendo.
Adotto quindi uno stile descrittivo, ma solo nei passaggi narrativi dove lo ritengo necessario. Viceversa sono piuttosto “asciutto”. Cosa che i miei lettori tendono a rimarcare – solitamente in termini positivi – in fase di commento o recensione.
Mi piace pensare a questo mio stile come a un esercizio di Art Nouveau.
La cosa singolare è che, pur essendo scrittori stilisticamente molto differenti, riusciamo ad apprezzarci a vicenda e – come dicevo poc’anzi – a collaborare attivamente.
Questo con buona pace di chi va sostenendo il dogma unico di una presunta (e utopica) “scrittura perfetta”. Il risultato di questo certosino e soggettivo modo di modellare uno stile standard porta, a mio parere, a una scrittura impersonale, legnosa e meccanica.
Cosa che va in netto contrasto con la natura stessa dei generi di cui ci occupiamo – tra i tanti – io e Germano.
Quindi, concludendo, direi che la varietà di stili e di registri narrativi è una gran benedizione.
PS: Visto che mi sono autodefinito un autore in stile Art Nouveau, mi piace pensare al collega citato in questo articolo come a uno scrittore che richiama le atmosfere del Dadaismo.
(A.G. – Follow me on Twitter)
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