È un giorno del 1899 quando Otto Rotfield si inoltra nel folto del bosco di Konin, un paesino a sud di Danzica, e varca la soglia della catapecchia di Yehudah Schaalman. Rabbino dall’oscura fama – a Konin si sussurra che sia stato posseduto da un dybbuq, uno spirito maligno che gli avrebbe conferito poteri soprannaturali –, Schaalman è solito ricevere nel cuore della notte la visita di ragazze di campagna alla ricerca di filtri d’amore o di donne sterili che, grazie alle sue arti cabalistiche, restano incinte poco tempo dopo.
Figlio di un fabbricante di mobili, trentenne così inetto e arrogante che in meno di cinque anni ha mandato in rovina l’azienda di famiglia, Rotfield non è a caccia di incantesimi o magiche pozioni. Vuole da Schaalman molto di più: un golem che passi per umano, un golem-femmina che gli faccia da moglie docile e ubbidiente e lo accompagni verso la nuova terra promessa: l’America.
Disposto, in cambio di denaro, a offrire ogni sorta di servigi, Schaalman si cimenta nel compito e crea dall’argilla una splendida golem, pronta a seguire e proteggere il suo padrone e, insieme, a scatenare la sua potente forza distruttiva.
Rotfield si imbarca con la sua creatura sul Baltika, il piroscafo addetto alla rotta Danzica-New York, ma, subito dopo averle dato vita con la formula trascrittagli dal rabbino, per un malore a lungo trascurato muore. Sola, la golem sbarca a New York e si aggira, stordita e totalmente alla deriva, per le strade rumorose della metropoli della fine del XIX secolo.
Non lontano dai suoi passi, nella zona di Lower Manhattan chiamata Little Syria, Butros Arbeely, uno stagnino cattolico maronita, è alacremente al lavoro nella sua officina in cui fabbrica o rappezza tazze e piatti, pentole e padelle, ditali e candelabri.
È alle prese con un vecchio fiasco di rame malconcio appartenuto da tempo immemorabile a una famiglia siriana, quando viene attraversato da una scossa potentissima e spinto via lontano dal suo tavolo di lavoro. Il tempo di riprendersi e riaprire gli occhi che scorge davanti a sé un uomo nudo, dai tratti del volto di una perfezione inquietante, i capelli scurissimi e un bracciale di metallo al polso destro: un genio, da lui accidentalmente liberato, uno di quei genii potenti e intelligenti, la cui forma reale, inconsistente come un soffio d’aria e invisibile all’occhio umano, può radunare i venti del deserto e cavalcarli, e assumere le sembianze di qualsiasi essere vivente…
A ottobre ho promesso che non avrei destinato molto spazio alle recensioni “vecchio stile”, almeno non qui su Plutonia Experiment (cosa che invece faccio settimanalmente su L’Ultimo Blog a Sinistra).
Oggi faccio un mezzo strappo alla regola, parlando di uno dei migliori libri letti nel 2014: Il genio e il golem, di Helene Wecker, pubblicato in Italia da Neri Pozza Editore.
Il romanzo può essere catalogato come urban fantasy, ma solo se sentite il bisogno irrefrenabile di etichettare ogni cosa. In realtà Il genio e il golem è un libro assai più sfaccettato e anomalo, che sfugge a una facile definizione.
E, soprattutto, è un ottimo libro.
La Wecker, autrice che non conoscevo, si dimostra una sapiente narratrice, in grado di umanizzare due non-umani (il paradosso è voluto) quali sono i due protagonisti della storia, la golem Chava e il genio Ahmad.
Essi si muovono, mimetizzati loro malgrado tra i mortali, in una New York caotica, in divenire, eppure già vitale e pronta a diventare il centro del mondo occidentale, così come la conosciamo noi oggi. Un calderone di etnie e di comunità diverse che, per un bizzarro gioco di scatole cinesi, ospitano due diversi per antonomasia.
Il genio e il golem è un romanzo lento, che va gustato come un tè caldo in un pomeriggio d’inverno.
Certo, ci sono molti retroscena da svelare, dalla natura del mago che ha intrappolato Ahmad con una catena magica, al mistero del gelataio che riesce a vedere le creature appartenenti al mondo ultraterreno. Tuttavia la Wecker è brava a costruire il tutto su una storia corale, che ha il suo punto di forza in una certa poesia che trasforma le parole in immagini e le immagini in emozioni.
Qualità rara, anche negli autori più esperti.
Tutto il lato fantastico della trama è comunque tale da soddisfare i fan più incalliti dell’urban fantasy: tra magia ebraica, rabbini convertiti al male, golem, ifrit, geni e leggende del lontano deserto nordafricano c’è davvero di che saziarsi.
Si tratta di un fantastico prepotente e al contempo nascosto, frutto di un sapiente dosaggio di elementi, che non fa prevalere né il troppo né il troppo poco. Allo stesso modo l’autrice bilancia le leggende arabe, da cui derivano i capitoli che riguardano il genio, e la New York di inizio ‘900, che pure è tanto lontana dalle dune siriane e dalle sue remote tradizioni magiche e folkloristiche.
Il genio e il golem è un fantasy di quelli che vorrei vedere più spesso tradotti per il mercato italiano.
Pare sia piaciuto a molti, speriamo faccia da apripista per altri buoni romanzi, giusto per alternarli un po’ con le sozzerie paranormal romance…
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