di Ivan Quaroni
“Credere nelle cose che puoi vedere e toccare non significa credere, ma credere nell’invisibile è un trionfo e una benedizione” (Abramo Lincoln)
Chi conosce la cultura orientale sa che i giapponesi riconoscono nelle ombre della luna la figura di un coniglio. Non solo. È un coniglio intento a pestare il riso in un mortaio per farne del mochi, un tradizionale dolce di capodanno. Lo chiamano tsuki no usagi, il coniglio lunare. L’uomo ha sempre guardato alla luna con occhi sognanti, intravedendo nelle sue macchie le forme più bizzarre. Ogni bambino, almeno una volta, ha fatto questo gioco con le nuvole e ha indovinato nelle loro forme ogni sorta di creatura. Si tratti di nuvole o di macchie lunari, il procedimento è sempre lo stesso: qualcuno scruta il cielo per carpirne i segreti o semplicemente per esercitare la fantasia. Kazumasa prova a capovolgere la direzione del gioco e immagina, così, di guardare la Terra da un punto di vista orbitale. Giacché immaginare, non equivale a osservare, l’installazione di Kazumasa, intitolata appunto La Terra vista dalla luna, non riproduce, come ci si aspetterebbe, l’aspetto della morfologia terrestre, così come ce lo restituiscono le ormai popolarissime immagini satellitari di Google Earth. Quella dell’artista nipponico è, invece, una Terra ricostruita attraverso uno sguardo interiore, un punto di vista che è prima di tutto ermeneutico e, dunque, assertivo.
Nella visione di Kazumasa, la Terra è un globo contenente le forme di un uomo e di una donna, al cui centro campeggia, come una sorta di umbilicus mundi, la testa di un neonato. I contorni sono sfumati, come pixel sgranati, forse per effetto dell’atmosfera, ma è chiaro che le figure si tengono per mano, in un ideale girotondo cosmico, che potrebbe essere una variante interstellare della danza matissiana. Di là dalle similitudini con l’emblema orientale del Tao, che compendia il principio di complementarietà degli opposti, l’installazione di Kazumasa è evidentemente un simbolo della creazione, intesa non solo come concepimento biologico, ma anche come generazione immaginativa. Secondo il filosofo Bob Proctor, la creatività procede in maniera discendente dal pensiero alle idee e da queste ultime al piano della realtà materiale e non viceversa. Un percorso che ricalca assai fedelmente il modus operandi dell’artista, che fa sempre precedere l’immagine mentale (e quindi il disegno) alla realizzazione delle opere. Si vede particolarmente nel modo in cui s’ispira alla natura, cercando di coglierne la verità più profonda, piuttosto che ricalcarne mimeticamente la morfologia. I temi e i soggetti trattati da Kazumasa non nascono, infatti, da un’impressione ottica, retinica dell’universo, ma da uno sforzo interpretativo.
I fiori, le corolle, i pistilli, i petali e gli stami, che con tanta acribia modella nella terracotta e poi colora in vivaci tinte acriliche su una base di gesso bianco, non trovano alcun riscontro nelle classificazioni botaniche. Un esempio tipico sono le opere del Calendario, un work in progress che consiste nella creazione di un piccolo giardino fiorito per ogni giorno dell’anno. Si tratta di prati del pensiero, di brani di pura astrazione che completano le caselle di un immaginifico scadenzario, di un almanacco dominato da una geometria algoritmica, solo apparentemente caotica. Ogni giardino è il frutto di un’idea oppure di un’impressione, di uno stato d’animo che non rispetta necessariamente la stagionalità floreale. Nell’arte di Kazumasa a febbraio può germogliare un giardino primaverile perché le stagioni sono relative, vincolate come sono alla geografia, mentre nella mente possono sbocciare fiori meravigliosi in qualunque momento.
Il pensiero, come luogo topico della creazione e della comprensione, è ossessivamente presente nell’arte di Kazumasa. L’artista vi ritorna in ogni occasione, cercando di penetrare i segreti della natura a partire da un’immagine cerebrale. Nel caso di Volevo esprimere un pensiero. (Pensiero di Nietzsche), la rappresentazione è addirittura tautologica. L’opera è un globo composto di centinaia di fiori blu, una sorta di nucleo di pensiero, un conglomerato fisico d’idee che appartiene a un ciclo di lavori dedicati ai pensatori che con le loro visioni hanno contribuito all’evoluzione dell’umanità. Sono visualizzazioni di pensieri anche opere come Volevo esprimere una passione in cuore (La gelosia) e Volevo esprimere un paesaggio mentale. (La notte che cade dal cielo), dove lo sforzo dell’artista consiste nel tentare di rappresentare l’invisibile, ossia concetti astratti e immagini che difficilmente possono assumere una forma.
La ricerca di Kazumasa si configura, quindi, come uno sforzo, una tensione. Un cammino erratico pieno d’insidie, assai diverso da quello di discipline come l’architettura o il design, dove la fedeltà al progetto è di rigore. Per lui la possibilità di fallire è una necessità. Sbagliare è, infatti, l’unico modo per comprendere la natura delle cose ed è, in fondo, ciò che distingue l’arte da tutte le altre attività creative. Nelle opere di Kazumasa si avverte l’imprinting di un approccio originale, inconsueto, che mescola l’incertezza del dubbio con la certezza dell’intuizione. A lui si adatta quanto Edward De Bono scrive a proposito del Pensiero Laterale: “Si tratta di considerare le cose non soltanto per quelle che sono, ma anche per quello che potrebbero essere. In genere, una stessa cosa può essere esaminata sotto molti aspetti, e talvolta i punti di vista meno ovvi si rivelano i più utili”[1]. La sua prassi operativa include l’errore e il dubbio, che sono il portato della cultura occidentale, ma anche la scrupolosità e il sentimento di ordine tipici della cultura orientale.
Nato ad Arita nel 1958 ed educato all’arte tradizionale (dunque alla monocromia delle chine), Kazumasa si libera lentamente del proprio background venendo a contatto con culture antitetiche. Dal 1982 al 1987, infatti, risiede in Messico, dove insegna scultura, mentre dal 1988 è stabilmente in Italia, dove, a sua detta, scopre l’energia musicale del colore e viene influenzato da artisti come Salvo e De Maria. Le sue sculture sono, come nell’antichità, caratterizzate da un sapiente uso dei colori. Usa, infatti cromie dalle tinte pastello, che aggiungono ai rilievi della terracotta una levità inedita. Se è vero che scopre il colore in Italia, così come Paul Klee l’aveva scoperto in Tunisia, è altrettanto vero che il suo pudore e la sua delicatezza nell’uso di quelle tinte sono attribuibili al cotè della cultura nipponica.
Anche i temi che egli affronta rimandano spesso al principio di complementarietà caro all’Oriente. Nelle sculture, uomini e animali sono sempre rappresentati insieme al loro principio vitale: i pensieri degli uni corrispondono ai semi degli altri. I suoi uomini sono, infatti, individui contemplativi poiché le idee sono il cibo dell’umanità, come nel caso di Volevo esprimere un uomo (uomo blu), mentre gli animali, spesso piccoli roditori, ghermiscono grandi semi che rappresentano la loro principale fonte di nutrimento, come in Volevo esprimere un animale (Animale che gioca con verde). Insomma, per l’artista ogni forma obbedisce a un assioma che ha fondamento nella natura stessa. L’equilibrio tra opposti, che gli alchimisti chiamano conjunctio oppositorum, sembra improntare tutta la sua opera in una sorta d’integrazione di principi e umori contrari, dalla crasi tra Oriente e Occidente all’unione di maschile e femminile, fino all’alternanza tra stati d’animo malinconici e gioiosi. D’altra parte, come scrive Gilles Deleuze, “una cosa non ha mai un unico senso. Ogni cosa ha più sensi che esprimono le forze e il divenire delle forze che si agitano in essa”. “Anzi non c’è la cosa”, prosegue il filosofo francese, “bensì soltanto delle interpretazioni e la pluralità dei significati”[2].