Una pandemia causata dal terribile necrovirus ha martoriato la razza umana, trasformando i contagiati in morti viventi affamati di carne umana, nonché portatori a loro volta della malattia.
Dopo mesi di lotta, il diffondersi della pandemia è stato contenuto. Restano però molti infetti al primo stadio della patologia. Per loro non c’è cura né rimedio. In un periodo compreso tra sei e otto settimane diventeranno a loro volta degli zombie. Le autorità hanno predisposto delle aree di quarantena dove i malati vengono condotti e “sedati”, nel momento in cui perdono definitivamente le loro capacità intellettive, trasformandosi in morti viventi.
Maggie, un’adolescente di un piccolo paese del Kansas, viene contagiata da un morso. Suo padre Wade, un agricoltore interpretato da Arnold Schwarzenegger, decide di tenerla con sé fino alla fine, anche se questo vuol dire “occuparsi di lei” quando il necrovirus avrà completato il suo iter infettivo…
Da tempi non sospetti vado dicendo, magari in modo un po’ antipatico, che gli zombie e le zombie apocalypse hanno ancora molto da dire e che possono essere raccontate in maniera diversa dal solito.
Io nel mio piccolo ho provato a farlo, tra l’altro con gran piacere e non poco divertimento.
Maggie, un film che qui da noi passerà in sordina, è un ulteriore esperimento.
Esperimento riuscitissimo, tra l’altro. Si tratta di raccontare un’Apocalisse “intima”, in cui gli zombie sono un mero pretesto per toccare temi molto alti: l’amore che lega un padre a una figlia, l’eutanasia, le malattie terminali.
Il regista Henry Hobson riesce a fare tutto ciò con grande tatto e bravura, ricavandone un affresco che va molto oltre i canoni dell’horror. Anzi, a tutti gli effetti Maggie ha poco del classico film dell’orrore (tanto che ho l’impressione che molti appassionati desiderosi di frattaglie e sbudellamenti rimarranno molto, molto delusi).
Gli zombie stessi si vedono col contagocce, anche se la loro presenza, accennata se non sussurrata, mette più angoscia rispetto ad altre messe in scena urlate e spettacolari.
Gli zombie di Maggie sono i nostri compagni, i nostri figli, i nostri colleghi sul lavoro, il vicino con cui chiacchieriamo la mattina, recandoci in ufficio.
C’è molta più inquietudine in questo umanizzare i morti viventi, che non nel trasformarli in una massa anonima e amorfa (anche se questo, va detto, è spesso la peculiarità più riuscita ed evocativa del cinema zombesco).
Maggie (Abigail Breslin) e suo padre Wade (Schwarzenegger) offrono delle interpretazioni intensissime e commuoventi. Sì, il vecchio zio Arnold sa recitare, pensate un po’! In un ruolo drammatico e per nulla muscolare risulta essere un padre credibile e straziante, nel suo desiderio di stare vicino alla figlia malata, fino all’incombenza estrema.
In tutto questo, il film di Hobson parla – come già accennato – di malattia terminale, e di come essa genera diffidenza e a volte ostilità nel prossimo. Non è solo paura di un contagio (molte malattie non lo sono), bensì il voler esorcizzare la presenza di una persona il cui status patologico ci ricorda l’inevitabilità della morte.
Cupo e triste, ma molto umano e profondo, Maggie è un film che fa ciò che altre pellicole cosiddette “horror” hanno dimenticato da tempo: racconta una storia, costruisce dei protagonisti e ce li fa sentire addosso.
Per tutto il resto vi rimando alla recensione di Lucia Patrizi.
– – –
(A.G. – Follow me on Twitter)
Segui la pagina Facebook di Plutonia Experiment
Archiviato in:film, recensioni, zombie