Di Ivan Quaroni
“Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria.”
(Italo Calvino, Il barone rampante)
Ci sono artisti che concepiscono la propria ricerca come un percorso a tappe, come una progressione estetica e formale capace di riflettere non solo la parabola evolutiva del proprio linguaggio, ma anche, e forse più ambiziosamente, la traiettoria della propria esperienza esistenziale. Sono gli artisti che, di solito, si concentrano periodicamente su un tema, sia esso iconografico o contenutistico, e lo indagano a fondo, perlustrandone ogni meandro fino al punto di trasformare un’intuizione in un’ossessione visiva. La reiterazione di un’idea, la sua declinazione in una pletora di variazioni è un modus operandi, peraltro molto ricorrente nella storia dell’arte, tipico di chi lavora per cicli, ognuno dei quali è di solito contraddistinto da una certa coerenza stilistica, grammaticale e concettuale.
Marco Massimo Verzasconi – come già altri commentatori della sua opera hanno rilevato – è senza dubbio uno di questi. Dalla fine degli anni Ottanta, infatti, la sua ricerca si è configurata come una successione di “serie” di opere, di cicli appunto, che hanno segnato profondamente gli sviluppi del suo linguaggio pittorico, documentandone l’articolazione da un’iniziale tendenza alla riduzione cromatica fino alla scoperta di una più ampia gamma tecnica ed espressiva. Una caratteristica saliente di chi opera in questo modo, è quella di lavorare a più dipinti contemporaneamente, preservando l’unità stilistica e d’intenti e mantenendo, così, la compattezza formale di ogni singolo ciclo.
Nel caso di Verzasconi questo modus operandi è funzionale anche al mantenimento di un atteggiamento critico verso ogni singola opera. Serve, cioè, a limitare il coinvolgimento emotivo che spesso si crea tra l’autore e la propria opera quando questa diviene oggetto di un’attenzione costante e prolungata nel tempo. Si tratta di una forma d’innamoramento che, inevitabilmente, offusca la lucidità necessaria a valutare il proprio lavoro. Lavorare per cicli consente, invece, all’artista di concentrarsi sul processo, facendo emergere il particolare mood della serie. A prevalere, dunque, non è la singolarità del dipinto, ma la pittura stessa in quel particolare momento storico, in quella fase dello sviluppo dell’artista. Si può perfino dire, scomodando la teoria di Alois Riegl, che è il Kunstwollen a emergere, cioè la coerenza espressiva raggiunta dalle forme artistiche (in questo caso dell’autore) nell’epoca e nel tempo presenti.
Le opere recenti di Verzasconi fanno parte di un nuovo ciclo pittorico in cui la pittura sembra tornare prepotentemente protagonista. Fin da subito, si avverte, infatti, che i dipinti della serie Piccoli pensieri sono segnati da una maggiore libertà gestuale, da un deciso ampliamento delle cromie e da un’attenuazione dei riferimenti illustrativi e favolistici che caratterizzavano il ciclo immediatamente precedente. La vena sperimentale dell’artista, abituato a mescolare tecniche e materiali diversi, si manifesta qui in una più libera organizzazione dello spazio e in una maggiore attenzione al trattamento delle superfici che, attraverso l’uso dello stencil, spesso assumono la qualità di una texture. Le cromie virano spesso su tonalità iridescenti e acide, quasi a rimarcare la natura eminentemente mentale e astratta della rappresentazione. Già Mario Botta, infatti, notava che nell’arte di Verzasconi “affiorano mondi fantastici, paesaggi virtuali che giacciono nei labirinti del nostro inconscio risvegliando sentimenti ed emozioni che avevamo smarrito”.[1]
Sul valore metaforico e sottilmente allusivo dell’opera dell’artista non può esserci alcun dubbio. Verzasconi non è mai stato un pittore realista, essendo troppo innamorato della poesia per sentirsi attratto dal mondo prosaico della mimesi. La sua è, piuttosto, una pittura d’incanto, in cui confluiscono ricordi infantili, suggestioni letterarie, citazioni favolistiche ed esperienze personali che formano un originale armamentario fantastico. Soprattutto, è una pittura pervasa da una vena malinconica, memoriale, percorsa da struggimenti paesaggistici, epifanie vespertine, atmosfere lunari che traducono il sentimento della natura, già caro agli artisti romantici, in una sensibilità rinnovata.
Verzasconi ammette che la sua pittura deve molto allo spirito dei luoghi in cui è cresciuto, ai profumi e alle sensazioni che il paesaggio ha impresso nella sua coscienza, nel tempo dei ludi infantili. Gli alberi che così frequentemente campeggiano, quasi fossero protagonisti assoluti, nelle tele di Piccoli pensieri, sono gli stessi su cui l’artista si arrampicava da bambino, ma sono anche qualcosa di più di un semplice frammento mnemonico. L’albero è, innanzitutto, un tema iconografico che l’artista ha già trattato in passato e che per il pensiero tradizionale (quello, per intenderci, di René Guenon o di Julius Evola) è sovraccarico di significati simbolici. Infatti, esso non solo è un emblema di mediazione tra la terra e il cielo e, dunque, metafora di un percorso evolutivo di ascensione sacra ma, analogamente alla simbologia della montagna, della scala e perfino della croce, rappresenta un’immagine dell’Axis mundi, del “Centro del mondo”, inteso come polo magnetico e spirituale dell’umanità tutta.
Non sono sicuro che Verzasconi abbia usato consapevolmente l’iconografia dell’albero in questa particolare accezione, ma sono certo che il suo riferimento letterario diretto abbia molti punti di contatto con la simbologia tradizionale. L’artista ha, infatti, ammesso di essersi ispirato a Il Barone Rampante di Italo Calvino, il romanzo scritto nel 1957 che compone, insieme a Il Visconte dimezzato (1952) e Il Cavaliere inesistente (1959), il secondo capitolo della trilogia araldica I nostri antenati.
Il romanzo racconta le vicende del giovane barone Cosimo Piovasco di Rondò, il primogenito di una nobile famiglia decaduta che in seguito a un litigio col padre, nell’anno di grazia 1767, decide di trascorrere il resto dei suoi giorni tra gli alberi e di non “toccare” più terra. Pur piena di eventi, dalle scorribande con i ladruncoli di frutta ai giorni trascorsi a caccia o a coltivare relazioni amorose, tutta la vita di Cosimo, fino all’ultimo, si svolge in una sorta di sopramondo vegetale, dimensione rialzata che diventa il simbolo di una scelta anticonformista e, al contempo, di una solitaria ascensione al di sopra delle convenzioni comuni.
I protagonisti delle opere di Verzasconi condividono il medesimo destino del personaggio di Italo Calvino. Anche loro, come il barone Cosimo, siedono tra le spoglie fronde di un albero, sospesi in una condizione di silente isolamento, di agognata solitudine, sebbene siano sovente circondati da silhouette di uccelli, lupi, cervi, gufi e altre figure totemiche di una fauna fantastica che rimanda al folclore e alle fiabe popolari. Sono personaggi, quelli dipinti dall’artista ticinese, che paiono assorti in uno stato di contemplazione, sospesi in un vagheggiamento quasi proustiano nei labirinti della memoria e dell’immaginazione. Ed è una rêverie, la sua, che assume i contorni di un linguaggio magmatico, mobile, pieno di sorprendenti effetti pittorici, che vanno dalle studiate tramature della superficie (ad esempio in pattern e texture ricorrenti), alle improvvise accensioni cromatiche, fino agli strani bagliori lisergici e alle ampie campiture di pigmento liquido.
Non è soltanto il racconto evidente, quello espresso nelle vicende rappresentate, a riflettere questo stato d’animo di sospensione fisica e mentale, ma è la pittura stessa, una grammatica visiva caratterizzata da vibrazioni luministiche e dilatazioni tonali che ne rimarcano il carattere lirico ed estatico. In questi lavori recenti, sembra che Verzasconi alleggerisca il peso dell’aspetto narrativo a favore di quello espressivo. Insomma, il linguaggio pittorico diventa il fulcro dell’indagine, l’epicentro del racconto e la semantica assorbe il significato, inglobandolo nei segni e nei grafemi che gli sono propri. D’altra parte, come nota lo scrittore americano Paul Auster, “Non è affascinante che il pensiero non possa esistere senza il linguaggio?”.[2]
I Piccoli pensieri di Marco Massimo Verzasconi segnano, dunque, un distanziamento dal piano della realtà contingente. Sono, se vogliamo, un’espressione di critica della realtà e, allo stesso tempo, una forma di delicata ritrosia poetica verso tutto ciò che è volgare e prosaico. Essi ci avvertono, infatti, che la vita, quella vera, non sta solo nella fenomenologia degli eventi esteriori, nel mondo così come lo percepiamo grossolanamente attraverso i sensi, ma è, forse più segretamente, radicata nel flusso invisibile della vita mentale, in quei ricordi, sensazioni e immagini che si allignano sul flebile confine che separa l’esperienza dall’immaginazione.
In questa luce, diventa chiaro come quel senso di distacco evocato dall’iconografia dell’albero, ma presente anche negli altri dipinti di Verzasconi, insomma quell’eremitaggio assorto, segno sicuro dell’anticonformismo garbato e pudico dei Piccoli pensieri, altro non è che “quella speciale modulazione lirica ed esistenziale” – come afferma il Calvino delle Lezioni Americane – “che permette di contemplare il proprio dramma come dal di fuori e dissolverlo in malinconia e ironia”.[3]
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Note:
[1] Mario Botta, Per Marco Massimo Verzasconi, in Marco Massimo Verzasconi. Fabein und Legenden über Berge und Sternennächte, Schroder & Co Bank AG, Zurigo, 2009, p. 14.
[2] Paul Auster, Invisibile, Einaudi, Torino, 2010.
[3] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988, p. 19.
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