Space may be the final frontier
But it’s made in a Hollywood basement
(Red Hot Chili Peppers – Californication)
Di Ivan Quaroni
Nelle sue ricerche sull’iconografia dell’industria discografica, spesso condotte sul filo dell’indagine sociologica, ma sempre con una particolare attenzione per l’aspetto marcatamente grafico, Nicola Di Caprio ci ha abituati a sorprendenti accostamenti, a mix suggestivi di citazioni rubate ora alla pop music ora al Cinema e alla Storia dell’Arte. Se, infatti, nell’installazione Drumcusi, un’alta colonna di tamburi di dimensioni variabili, l’artista strizzava l’occhio alla famosa opera di Constantin Brancusi, in Godguru sovrapponeva ironicamente la CD cover della colonna sonora del Padrino con Jazzmatazz di Guru e, infine, reinterpretava il tradizionale genere del ritratto con le top twelve di U R What U Listen 2, che tracciavano un profilo culturale del soggetto proprio attraverso l’espressione dei suoi gusti musicali.
E come considerare poi le verticali cadenze dei suoi CD Oversize se non una sorta di ipotetico sequel in salsa pop, funky, metal e rock, delle suggestioni della Poesia Visiva? Tra l’altro, proprio la parola scritta, quella dei loghi delle band di culto, delle title track e dei proclami rock, delle coste dei CD e persino degli stickers sulle custodie, domina quasi tutta la produzione di Di Caprio, finendo per trovare qualche affinità elettiva con la pittura di Bartolomeo Migliore. Ora, l’indiscussa capacità di Nicola Di Caprio di muoversi nei meandri della cultura di massa, dalla musica al cinema, dalla moda al costume, e di rintracciare microstorie sulle quali innestare il suo potenziale creativo, ha generato questa ennesima incursione nei sotterranei della mitologia contemporanea. Who’Next, titolo dell’ultima installazione dell’artista, riannoda i fili di un episodio leggendario della storia del gruppo capitanato da Pete Townshed, ridefinendolo però alla luce di nuove sollecitazioni, sempre con quel piglio ironico e giocoso che è una delle sigle del suo stile.
Who’s Next non è un album qualunque degli Who. Nel 1971, dopo il successo strepitoso di Tommy, Pete Townshed si era messo in testa di incidere una nuova rock-opera, che avrebbe mescolato la musica, suonata dal vivo, al teatro. Il progetto si sarebbe dovuto chiamare Lifehouse, ma fortunatamente non si realizzò mai. Tuttavia, tutti i brani già incisi sia in studio che live confluirono nell’album Who’s Next che, neanche a farlo apposta, si rivelò il miglior album del gruppo, complici le geniali intuizioni di Townshed, chitarrista, songwriter e musa intellettuale della band, l’introduzione di brani eseguiti con il sintetizzatore e la presenza di uno special guest d’eccezione come il pianista Nick Hopkins. Grazie poi agli accenni di musica minimalista e alle allusioni ai pattern sonori di Terry Riley (Baba O’ Riley), cui peraltro è dedicato l’album, a una manciata di ballate e a certe anticipazioni dello spirito punk come Won’t get fooled again, Who’s Next si guadagnò un posto d’onore negli Annali del rock.
Non è, dunque, un caso che lo spunto di Nicola Di Caprio parta proprio da qui, anche se, come già accaduto per altri suoi lavori, è l’elemento grafico a catturare la sua attenzione. L’antefatto che sta dietro la copertina di Who’s Next è, infatti, il vero movente della nuova installazione dell’artista. L’eloquente fotografia di Ethan A. Russel rappresenta Townshed e compagni soddisfatti dopo aver urinato su un inquietante parallelepipedo di cemento, sullo sfondo di una wastland rocciosa. L’allusione al famoso monolito di 2001 Odissea nello Spazio è evidente. Già, ma perché i quattro membri della band vi hanno lasciato il loro “segno”?
Era il 1971. Qualche tempo prima Townshed aveva chiesto a Kubrick di girare Tommy, ma il famoso regista aveva rifiutato, suscitando così il malcontento del gruppo. La leggenda vuole che un giorno, mentre tornavano in macchina da un concerto alla Top Rank Suite di Sunderland, gli Who si siano imbattuti in questa grande struttura in pietra, che ricordò loro il monolite di Kubrick. “Proprio in quel momento – ha raccontato Russell – John e Keith stavano discutendo di 2001 Odissea nello Spazio e a Pete venne l’idea di andare a pisciare sul monolite”.Fu la risposta del gruppo al rifiuto di Kubrick. Un comportamento tipico degli Who, quello di abbinare ai contenuti colti della loro musica atteggiamenti rabbiosi che la rivoluzione punk avrebbe poi ereditato.
Molto più probabilmente, gli Who avevano sfruttato quella che già allora doveva essere considerata un’icona della moderna cinematografia. L’immagine del monolite nelle sequenze della pellicola di Kubrick (1968) sarebbe infatti rimasta indelebilmente impressa nella memoria collettiva. Di Caprio fa leva proprio sulla funzione “mitologica” di tale icona, catapultandola in un contesto odierno, in una sorta di environment che coinvolge il pubblico non tanto sul piano della rievocazione memoriale, ma piuttosto su quello di una ironica e stimolante riattualizzazione.
L’artista fa sparire lo pseudo monolite dalla copertina di Who’s Next, per ricomporlo in tre dimensioni e sottoporlo così, enigmaticamente piantato sul suolo della Galleria, allo sguardo curioso dei visitatori. Reagiranno – verrebbe da chiedersi – come le scimmie nella memorabile sequenza di 2001 Odissea nello Spazio o, per effetto di millenni di evoluzione, prevarrà l’affettata educazione dell’Homo Urbanus?
Una grande foto sulla parete di fronte all’ingresso rappresenta un uomo tatuato che mostra i pugni. Anche le dita sono tatuate, come quelle degli Easy Raider o di certi cantanti rapper americani, e sembrano lanciare una sfida: “chi è il prossimo?” Lontano dall’aver esaurito il suo potenziale magnetico, il monolite si staglia nello spazio come un enorme punto interrogativo. Nel suo film Kubrick gli aveva affidato le sorti dell’evoluzione della specie umana, con quel suo diabolico insinuare in una lingua muta. Chissà, che Nicola Di Caprio non gli abbia attribuito lo stesso ruolo che riveste per noi oggi l’arte contemporanea?