Paolo Treni. Simulacra

di Ivan Quaroni

 

“La materia secondo la sua essenza è luce.”
(Rudolf Steiner)

 


Paolo Treni, Atlas Sidereus, 2016, laser, smalti, pigmenti e vernici su plexiglas, 85×55 cm. Foto: Gilberti – Petrò

La questione della percezione e l’analisi del funzionamento dei meccanismi ottici sono stati al centro delle ricerche artistiche tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta. Gli artisti optical (come Victor Vasarely, Bridget Riley e Jesus Rafael Soto), così come quelli del Gruppo Zero (Germania), del Group de Recherche d’Art Visuel (Francia) e dei gruppi N e T (Italia) avevano indagato l’illusione ottica e la percezione plastica del movimento con opere che funzionavano come dispositivi di stimolo. Queste formazioni, che si rifacevano alle esperienze avanguardiste di De Stijl, Abstraction-Création, Cercle et Carré e Bauhaus, insistevano, però, soprattutto sull’aspetto meccanico del circuito stimolo/risposta, riallacciandosi alle scoperte scientifiche nel campo della fisica quantistica e alle teorie sulla rilevanza dell’osservatore nel comportamento delle particelle subatomiche. Il loro approccio pionieristico aveva permesso di mettere al centro del dibattito il tema del rapporto tra spettatore e opera e di evidenziare il valore cognitivo della fruizione estetica.

Sebbene il lavoro di Paolo Treni parta dalle medesime premesse, cioè dalla reintroduzione del discorso sulla percezione e sulla partecipazione attiva dell’osservatore, per fortuna sono molte le ragioni che ci obbligano a non ascrivere il suo linguaggio alla tradizione dell’arte ottica e cinetica. Prima di tutto, il fatto che l’artista non utilizzi una grammatica astratta di puro rigore geometrico, ma piuttosto alluda, con le sue opere, al mondo delle forme organiche (magmi e fluidi) e dei fenomeni che governano la meteorologia (nubi, turbini, zefiri, arcobaleni), quasi cercasse un contatto diretto e più profondo con le energie vitali del cosmo.

Un altro elemento distintivo dell’opera di Paolo Treni, consiste nell’esasperata cura dei dettagli e nella maniacale acribia con cui procede alla realizzazione di opere dal forte impatto estetico, oltre che percettivo. L’eleganza formale è, infatti, un fattore niente affatto trascurabile o accessorio nella sua indagine artistica, che si affianca alla volontà di procurare allo spettatore un’esperienza di visione coinvolgente. Esperienza, che nel suo caso, supera l’espediente meramente illusionista dell’Op Art, prefigurando ben altre profondità cognitive. Ma procediamo per gradi.

Paolo Treni viene da un background teatrale. Dopo la laurea in comunicazione alla Cattolica di Milano e il diploma della scuola del Teatro Arsenale, entra in contatto con il laboratorio di scenografia di Jacques Lecoq a Parigi, dove impara a gestire l’aspetto processuale della progettazione. Lecoq è celebre per aver inventato, dopo un confronto con la Commedia dell’Arte italiana, la tecnica della “maschera neutra”, che impone all’allievo di trovare dentro di sé una condizione d’apertura e ricettività, una sorta di pagina bianca emozionale su cui poi si potranno scrivere le emozioni del dramma. Da questa esperienza, Paolo Treni ammette di aver imparato “un approccio alle arti libero da condizionamenti” che l’ha portato scoprire una dimensione interiore astratta, “fatta di spazi, luci, colori, materiali e suoni” derivati dalle esperienze vissute. Una dimensione astratta, che tuttavia ha un forte radicamento organico. Non è un caso che Lecoq sia stato, prima di diventare attore, un insegnante di educazione fisica. Evidentemente Paolo Treni ha imparato dal maestro francese a valorizzare l’importanza di quella congerie di memorie, percezioni e sensazioni che è il corpo umano ed è dunque logico che la sua arte, pur essendo digitale, faccia particolare attenzione alla sfera sensibile ed emozionale.


Paolo Treni, Deep Blue, 2016, laser, smalti e vernici su plexiglas, 90×70 cm. Foto: Gilberti – Petrò

Treni concepisce l’opera come un processo alchemico di trasformazione della materia grezza e sorda in un composto sublimato e luminoso. Usa, infatti, laser, smalti, pigmenti e vernici per trasformare delle comuni lastre di plexiglas in superfici che catturano e irradiano la luce, modulandola sulle cangianti frequenze dello spettro cromatico.

Fisicamente, le sue trappole luministiche possono assumere forme diverse. La più riconoscibile è quella vaporosa di una nuvola che, come nel caso di Atlas Sidereus (2016), risponde alle sollecitazioni ambientali con sottili rifrazioni tonali. In altri casi, ad esempio Nubes Turbinis (2017) e Zephyrus Meridiei (2017), la struttura delle nubi evoca in tinte cangianti e quasi metalliche le turbolente correnti interiori dei cumuli temporaleschi, in un trionfo di curve che rimanda, inevitabilmente, anche alle capricciose volute del Barocco.

Nei Frammenti, invece, l’occhio è irretito da una pletora di diagrammi ipnotici che riverberano il disegno in mille screziature di luce. La lastra, non più sagomata, diventa puro contenitore, simulacro di affascinanti divagazioni oniriche che riadattano le suggestioni naturali, come nel vorticoso maelstrom digitale di Deep Blue (2016).


Paolo Treni, Nubes Turbinis, 2017, laser, smalti e vernici su plexiglas, 151×80 cm, installation view. Foto: Gilberti – Petrò

L’allusione ai costrutti organici è presente anche in Modernità liquida, una serie di opere che prende in prestito il titolo dal sociologo Zygmunt Bauman per comporre un immaginifico catalogo di fluidi ed effluvi capaci di trascinare lo sguardo dell’osservatore in un magma lavico di bagliori e lampi elettrici (Cph4, 2016). Qui come nei Frammenti, Paolo Treni sembra aver preso atto del carattere ambiguo della rivoluzione tecnologica in atto, un processo insieme seducente e dirompente che per Zygmunt Bauman è responsabile della drammatica trasformazione attuale della società, un’alterazione che, appunto, mutua dallo stato liquido i suoi nuovi paradigmi esistenziali: mobilità, adattamento, duttilità, ma anche precarietà, insicurezza e indeterminazione.

Incertezza e indefinitezza sono caratteri formali anche delle Reminescenze oleografiche, opere che accentuano la sensazione che i mutevoli diorami cromatici di Paolo Treni sorgano plasticamente dall’oscurità di uno spazio insondabile. Gli acuminati cristalli di PTA (2013) e i filamenti iridati di Ex Glacie Exurgo (2016), così come gli archi aurorali di Iris Fervens (2016) e le plasmatiche fulgori di Golden Punk (2013) sembrano promanare da un nero abissale, pneumatico, siderale. Un nero che è, ineludibilmente, condizione iniziale su cui innestare la prima forma di purificazione dell’opus alchemico chiamata nigredo. Da una superficie digitale nera, in questa serie, parte, infatti, l’artista per tracciare le sinusoidi dei suoi organismi di luce, esattamente come dal buio, per chi come lui si è occupato di scenografie, comincia la costruzione illuminotecnica di uno spettacolo teatrale.

La ricerca di Paolo Treni, nata, per sua stessa ammissione, dall’applicazione del metodo di analisi del movimento di Jacques Lecoq alla scenografica, non può che evolvere dalla bidimensionalità otticamente illusoria delle succitate serie alla tridimensionalità monumentale di Goccia d’abisso, un’installazione bifacciale e scomponibile che coniuga le forme acuminate dei cristalli all’esterno con quelle fluide e subacquee dell’interno di quella che appare una sorta di cupola geodetica costruita con frammenti poligonali di PET trattati con laser, smalti e vernici. L’opera, come spiega l’artista “rappresenta in una goccia il tema del mistero legato alla figura ambivalente del mare in Montale”.


Paolo Treni, Cph4, 2016, laser, smalti e vernici su plexiglas, 100×75 cm. Foto: Gilberti – Petrò

Proprio al poeta genovese è intestato il Premio Eugenio Montale Fuori di Casa, prestigioso riconoscimento vinto da Paolo Treni nel 2017 che, per l’occasione, ha creato l’installazione intitolata Collezione Farfalle di Dinard, costituita da una sequenza di papillon in plexiglas che, però, possono essere indossati dai loro possessori. Si tratta di “arredi vestitivi”, per usare una terminologia cara al design post-moderno di Alessandro Mendini, ispirati a un racconto di Eugenio Montale ambientato nella cittadina bretone di Dinard, che traspongono nella dimensione oggettuale (e funzionale) l’immaginario iconografico dell’artista, in parte giocato sugli effetti di riflessione e rifrazione luministica. Dico “in parte”, perché il nucleo della ricerca dell’artista non consiste tanto nella stimolazione dei meccanismi che regolano il funzionamento della visione, quanto nella conseguente percezione di una gamma di esperienze sottili e di processi cognitivi che si schiudono oltre la soglia puramente retinica e sensibile e che implicano – per dirla con le parole del neuroscienziato Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio – “l’attivazione di circuiti cerebrali non solo visivi ma anche sensori-motori, viscero-motori e affettivi”.[1] Nei lavori di Paolo Treni, infatti, l’esperienza estetica diventa il viatico di un processo d’immersione interiore. Un percorso che parte dal nervo ottico e arriva, per via sinestetica, fino ai confini della coscienza vigile, là dove riposano memorie che credevamo sepolte.


NOTE

[1] Vincenzo Santarcangelo, Dialoghi di Estetica. Parola a Vittorio Gallese, “Artribune”, 5 dicembre 2013.


INFO

Paolo Treni, Simulacra
A cura di Ivan Quaroni
Fortezza Firmafede
Via Cittadella, 19038 Sarzana (Sp)
10 – 21 marzo 2018
Inaugurazione: sabato 10 marzo 2018, ore 17.00
Orari: da lunedì a domenica ore 10.30-13.00 e 14.30-17.30; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura
Ingresso alla mostra compreso nel percorso di visita a Fortezza Firmafede e MUdeF (Euro 6,00)

Informazioni su 'Ivan Quaroni'