Un amico mi ha appena regalato l’ultimo libro di Francesco Bonami (L’arte nel cesso, Mondadori, 2017) che, come sempre, si legge facilmente e con una certa rapidità, cosa davvero apprezzabile e che ci evita, vivaddio, di cimentarci con il solito linguaggio astruso e insensato di molti suoi colleghi. Anche questa sua ultima fatica mi produce lo stesso effetto delle sue precedenti scritture, un effetto col tempo divenuto familiare e che mi lascia sempre in bocca un retrogusto amaro. Dentro ci sono molte considerazioni condivisibili su quel circo mediatico che è diventata oggi l’arte contemporanea, come di consueto espresse con raro acume e spiazzante sarcasmo, come quando afferma che “viene il dubbio che l’arte stia virando verso la dimensione del parco giochi” o che “l’arte non dovrebbe mai far passare per cretino nessuno”. Alcuni amici che come me condividono da molti anni questo genere di lamentela (si perché in fondo non si tratta che di lamentele, di sfoghi da frustrati) rimangono piacevolmente sorpresi da questa ennesima confessione a cuore aperto dell’autore, non nuovo a ripensamenti e sconfessioni, indici indubbi d’intelligenza, ma anche di una certa, nemmeno troppo malcelata, volontà di togliersi qualche sassolino dalle scarpe.
Ogni volta che leggo un libro di Bonami – e L’arte nel cesso non fa eccezione – mi viene la certezza che da curatore deve aver passato più di qualche brutto quarto d’ora, che deve aver inghiottito, di tanto in tanto, qualche amaro rospo e che, insomma, nell’imperterrito tragitto della sua fulgida carriera sia stato più volte sul punto di mandare tutto a ramengo. Un’impressione, questa, che me lo rende davvero simpatico, anche se forse così simpatico non è. Il succo del libro è che l’arte contemporanea è un grande contenitore in cui la fuffa abbonda più del riso sulla bocca degli stolti e che, in buona sostanza, tante cose per le quali oggi il bel mondo dell’arte si sdilinque non sono ne più e ne meno che colossali prese per i fondelli. Noi da buoni lettori annuiamo, scotendo il capo consenzienti e un po’ compiaciuti che un tale curatore internazionale, divenuto ormai opinion leader, ratifichi con la sua la nostra anticipatoria intelligenza critica. Poco importa che Jean Clair suoni da anni una solfa analoga e che schiere d’intellettuali in controtendenza denuncino da lustri gli stessi soprusi perpetuati dalla casta delle gallerie e dei curator più accreditati. Poco conta l’uscita proditoria del polemico libello di Angelo Crespi (100 anni di arte immonda. Dall’orinatoio di Duchamp alla merda di Manzoni: come il politically correct ci obbliga ad adorare il brutto, Il Giornale, collana Fuori dal coro, 2017) che tratta la stessa sostanza e sovente con esempi coincidenti. Quel che conta è che la denuncia dei birignao del contemporaneo sia compiuta dall’interno del sistema, e per giunta ad opera di uno dei suoi più celebrati esponenti, curatore di Biennali e di Musei, massimo divulgatore di valori che, al netto di qualche polemico colpo di testa – come ad esempio l’inserimento di Pietro Annigoni nella mostra Italics che valse il rifiuto a partecipare di Jannis Kounellis – quasi mai si sono discostati da quelli che ora così zelantemente ripudia.
Ma, intendiamoci, non mi sogno minimamente di fare le pulci a Bonami. Lui è un super curatore internazionale, io, al più, uno scrivano nazional-popolare (forse nemmeno tanto popolare). Se fosse un commentatore sportivo a lui spetterebbe l’onore della telecronaca della finale dei Mondiali di calcio, a me quello della partita di recupero della Spal.
Le persone cambiano ed è una cosa bellissima, che rende un grande merito a Bonami. Quando afferma che forse il problema dell’arte contemporanea è che “nel corso del tempo ha parlato sempre di più a un numero ristretto di persone mentre paradossalmente quelli che volevano ascoltare aumentavano a vista d’occhio” il mio cuore giubila, malignamente vendicato di tutti i bastoni appoggiati ai muri e di tutti i mucchietti di carta tritata depositata sui pavimenti delle fiere d’arte. Sì, il mio cuore esulta trepidante, ora finalmente incline al perdono di tutti i nemici, di tutti i pentiti che oggi sbandierano la nullità delle tante e tante vili offese recate al pubblico pagante, soprattutto quando leggo che “guardarsi l’ombelico, parlare troppo dettagliatamente dei cazzi propri è un errore fatale per l’arte”, oppure che, sulla scorta di J.S.G. Boggs, bisogna ammettere che l’arte è denaro e che allora è meglio tagliare “i vari passaggi intermedi, ossia la creazione dell’arte che pretende di nascondere il suo valore commerciale”.
Bonami indirettamente ci conferma che tutti quei cartellini con le courtesy delle Gallerie di riferimento degli artisti che abbiamo visto all’ultima Biennale di Venezia, quelli in cui mancava giusto il numero di telefono della sede di New York, sono la vera sostanza di tutto, l’invisibile nascosto in piena vista. Tanto valeva, allora, tornare all’ufficio vendite della Biennale, che un tempo si occupava di dirimere “onestamente” le transazioni commerciali. Io non mi scandalizzerei affatto, anzi lo considererei un segnale positivo. D’altra parte – pecunia non olet – l’arte ha sempre avuto a che fare con i soldi… e meno male!
Ma sto uscendo fuori tema, non m’interessa tanto la natura polemica del satirico pamphlet di Bonami (ah… dite che non è satirico?), ma l’amarezza di fondo. Per me leggere i suoi libri è quello che gli inglesi definiscono un guilty pleasure, un piacere non esente da sensi di colpa. Intanto perché sono libri scritti bene, pragmaticamente semplici, che mi ricordano le indicazioni del vecchio caporedattore di Arte (Cairo editore) Mario Pagani, il quale mi ammoniva così: “Quaroni, devi scrivere d’arte come se dovessi spiegarla a tua zia o al fornaio sotto casa” (consiglio per il quale gli sarò eternamente grato). Poi perché sono sempre suddivisi in capitoli brevi, che si esauriscono nel tempo di una seduta al gabinetto (e questo caro Bonami è un complimento!). Però l’amarezza che sprizza dalle loro pagine, quella cinica, persino ottusa, voglia di vendetta proprio non mi va giù. La trovo indigesta come un calippo a gennaio, soprattutto perché l’autore non ne ha davvero bisogno (tutti noi curatorini sogniamo, un giorno o l’altro, di lambire anche solo per un minuto le sue glorie). E qui viene il senso di colpa, cioè il fatto di trarre piacere da un atteggiamento che proprio da gentiluomo non è e che, ho l’impressione, non sia mosso da un improvviso bisogno di onestà intellettuale. Mi aspetterei, beata ingenuità!, che alla critica seguisse almeno qualche indicazione di via d’uscita, che alla bruttura non seguisse la “Bottura”, ma la “rottura” con un sistema che fa acqua da tutte le parti e che diventa ogni stagione più intollerabile.
Lui, Bonami, ammette di non sapere quale sia la soluzione ed io rimango un po’ basito e un po’ sollevato, perché capisco che il mio è solo un bisogno infantile di consolazione e che, vergognandomene un po’, covo, nell’intimo, il desiderio di credere che l’arte contemporanea sia una cosa utile, capace di illuminare le coscienze. E, peggio ancora, che il lavoro che faccio tanto modestamente serva a qualcuno, oltre al sottoscritto. Perciò, in fin dei conti, presumo di dover ringraziare l’autore del libro per la sua capacità di liberarmi, un poco alla volta, da questa pia illusione.