La propaganda giapponese nella WWII

Sono reduce dalla visione dell’ottimo documentario prodotto da Netflix, Five came back, che racconta di come cinque grandi registi di Hollywood vennero coinvolti nella Seconda Guerra Mondiale: John Ford, John Huston, Frank Capra, William Wyler e George Stevens.
Il documentario, diviso in tre, esaustive puntate, è in sostanza un’analisi della macchina propagandistica americana al momento di entrare nel conflitto. C’era un’intera nazione da convincere a combattere, considerando un punto di partenza in buona parte neutralista (certo, l’attacco nipponico a Pearl Harbor fu risolutivo, in questo senso).
C’era anche da sfidare l’efficace propaganda nazista, che trovava in Goebbels il suo maestro, e ne Il Trionfo della Volontà il suo capolavoro. Come si evince proprio da Five came back, Frank Capra restò molto colpito dalla celebrazione cinematografica del nazismo, e da lì iniziò a lavorare per un’efficace contropropaganda.
A questo punto mi è venuta la grande curiosità di sapere come funzionava la propaganda bellica di un altro paese, di cui noi occidentali parliamo sempre poco: il Giappone.
Ecco ciò che ho trovato.

L’Impero Nipponico, negli anni ’30, aveva oramai accettato una certa apertura ai mezzi occidentali per espandere la propria influenza, non solo politica bensì anche culturale.
Il primo obiettivo del Giappone era quello di stringere sempre più la morsa sulla Cina.
A quei tempi i cinesi venivano considerati arretrati, sempliciotti, campagnoli. In poche parole: culturalmente inferiori.
Fin dai primi anni ’30 il governo nipponico pubblicò dei testi scolastici che descrivevano la Cina proprio in questi termini, aggiungendo però che, grazie al cosiddetto “aiuto” giapponese, i cinesi potevano progredire e prosperare. Un eufemismo per giustificare le ingerenze di Tokyo negli affari dei vicini. Ingerenze che era il preludio all’invasione vera e propria.

Oltre ai libri scolastici, la propaganda del Sol Levante faceva ampio uso di vignette e manga a fini propagandistici. Questo valeva per la Cina (che però nei fumetti veniva più che altro presa in giro), che per Indonesia, Malesia, India, Thailandia, Nuova Guinea, Filippine e Birmania.
Attraverso le illustrazioni, ma anche al cinema (che era uno dei nuovi mezzi sperimentati dai giapponesi), Tokyo spingeva questi paesi a ribellarsi contro la sudditanza coloniale britannica, americana, olandese e per alcuni versi anche cinese. L’elefante era l’animale-simbolo più spesso utilizzato per rappresentare l’orgoglio di queste nazioni. Spesso lo si rappresentava intento a calpestare Churchill o altri leader occidentali.

Con l’entrata in guerra contro gli Stati Uniti, la propaganda si diede da fare per rappresentare gli americani come un popolo di pervertiti decadenti, senza morale e senza virtù.
Sulla rivista di manga Osaka Puck gli statunitensi venivano dipinti come pornomani, dipendenti dal sesso, dal denaro, dal fumo, dall’alcool e dalla ricerca di un lusso smodato e imperialista.
Gli americani mostravano i giapponesi come scimmie retrograde, ma i giapponesi non erano da meno, attribuendo agli yankee il ruolo di “demoni occidentali”.
Roosvelt fu spesso raffigurato come una sorta di “gran demone”, così come il suo alleato principale, Churchill (a cui però venivano riservate minore attenzioni). Anche altri leader degli Alleati non sfuggivano al meccanismo della propaganda. Venivano descritti come bestie dal volto umano, che mandavano allo sbaraglio i soldati per pure ragioni di imperialismo economico e finanziario.
Non mancavano alcuni richiami al presunto potere che gli ebrei esercitavano per controllare in modo occulto la politica occidentale, specialmente quella americana.

In seguito all’alleanza coi tedeschi, Tokyo cercò, anche se non i maniera ossessiva, di lodare le virtù germaniche, anche se c’era un certo fastidio per gli eccessi razzisti del Nazismo, tanto che il Mein Kampf uscì in edizione parzialmente censurata.
Con la sconfitta di Hitler, i giapponesi non persero tempo nel portare a galla il loro odio represso per i tedeschi, sostenendo che avevano perso la guerra perché incapaci di “morire da veri soldati”, e perché sottostavano a un’ideologia eccessivamente chiusa e brutale.
Al contrario, i giapponesi avevano una certa stima per Benito Mussolini, visto come un leader in grado di portare l’Italia nella modernità. La medesima stima mancava nei confronti degli italiani, soprattutto dopo il ’43, quando furono additati come colpevoli della fine del Duce e del fascismo.

Molti sono i manga e gli anime realizzati per esclusivi motivi propagandistici. Uno dei più famosi è probabilmente Norakuro, di Suihō Tagawa.

Nel manga Norakuro, creato da Suihō Tagawa ed apparso sulla rivista Shōnen Kurabu nel 1931, e in alcune sue trasposizioni animate, il Giappone e le nazioni in guerra sono rappresentate da animali.[33] Il protagonista, Norakuro, e il suo esercito di cani raffigurano i giapponesi, coraggiosi ed eroici e bandiere giapponesi sono issate all’entrata della caserma dei cani. Si è ipotizzato che le tigri rappresentino la Corea. Nella versione animata Norakuro si traveste da tigre, cosa che gli permette di immobilizzare la tigre vera, riuscendo alla fine a vincere: si può vedere un rimando al Giappone, che, comportandosi da benefattore nei confronti dei coreani, alla fine riesce a metterli in gabbia.[34] Allo stesso modo, i maiali sono identificabili come i cinesi, disorganizzati, codardi e incapaci, guidati dal generale Tonkatsu (豚勝? letteralmente “maiale vittorioso” ma in giapponese suona anche come “cotoletta di maiale”), personaggio creato sul modello di Chiang Kai-Shek:[35] essi parlavano giapponese con gli stessi errori da sempre attribuiti ai cinesi ed accetteranno alla fine l’occupazione da parte dei cani di Norakuro. Gli orsi, poi, rappresentano i russi, le pecore i mancesi e le capre i mongoli. (Fonte: Wikipedia)

Norakuro.

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Articolo di Alex Girola: https://twitter.com/AlexGirola
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