Puoi convincerti che è solo un sentiero che sale e che prima o poi ti porterà da qualche parte, si tratti di un crinale o di un borgo dove potrai fare tappa. Oppure puoi spalancare i tuoi sensi - aprire le porte della percezione, avrebbe detto un poeta di altri secoli - e sentire cosa ti si muove dentro, fino a comprendere che anche una montagna ha un dentro.
Ecco, questo è ciò che ha sperimentato Nan Shepherd, questo ci ha poi raccontato in un libro che incredibilmente per anni è stato dimenticato dall'editoria italiana. Finalmente pubblicato grazie al Ponte alle Grazie, La montagna vivente - un titolo già eloquente - si impone subito come una di quelle letture che, senza magari entusiasmare come un grande romanzo di avventura, sanno comunque conquistare, anche poco a poco, fino a diventare indispensabili. Non è un capolavoro della letteratura dell'alpinismo, come ho letto, ma assai di più, un libro che cerca e scova l'anima della montagna.
Vien quasi da invidiare questa donna che, nata sul finire dell'Ottocento, si laureò all'università di Aberdeen nel bel mezzo della Grande Guerra, insegnò letteratura inglese per quarant'anni, senza mai stancarsi di coltivare il suo amore per la montagna. Ma la cosa più sorprendente è che questo amore non lo ha mai esercitato in astratto, ma piuttosto rimanendo sempre fedele ad alcune vette che ha continuato a percorrere ed esplorare per tutta la vita: i monti Cairngorm, nella Scozia nordorientale, altresì conosciuti come l'Artico della Gran Bretagna.
Forse solo una scozzese, con il suo temperamento tenace, poteva dimostrare tanta perseveranza. Ma quello che conta è che sentendola viva, la sua montagna, Nan Shepherd l'ha scoperta anche infinita. Ci sono molti modi di viaggiare e il più affascinante, mi sa, è quello che si alimenta di ritorni.
Ecco il segreto di questo libro, che ci insegna a tornare, a viaggiare in profondità piuttosto che in ampiezza, a considerare la montagna non come una cima da scalare, ma come un amico che è bello andare a trovare.