di Ivan Quaroni
Fin dall’antichità l’uomo ha considerato il regno animale come un territorio di simboli e metafore, utilizzando l’effigie di questa o di quella specie a scopo puramente rappresentativo. L’araldica ha fatto abbondantemente uso di iconografie zoomorfe nel tentativo di illustrare i pregi e le virtù, le qualità e le prerogative di un clan o di una casata nobiliare, di una corporazione o di una confraternita. Così, nel corso dei secoli, gli animali sono stati virtualmente trasformati in creature allegoriche e in personaggi favolistici. In pratica, essi sono stati sottoposti ad un processo di forzata umanizzazione, che li ha, per così dire, addomesticati, rendendoli più conformi ad una visione antropocentrica del creato.
Steffen Terk è partito proprio da questa considerazione quando ha deciso di sviluppare un ciclo di lavori incentrati sul tema della rappresentazione zoomorfa. La serie Animals for Lorenzelli Arte è, infatti, un tentativo di ribaltamento del consueto meccanismo proiettivo dell’uomo, il quale vede gli animali come incarnazione dei propri attributi morali o caratteriali. A dispetto dei titoli, in cui l’animale figura ancora come attributo di un soggetto umano – Jan Peter’s Hyaena, Flynn’s Wolf, Björn’s Ram, Kerstin’s Panther, Marie’s Jellyfish e così via – in questi dipinti di Terk si avverte la volontà di restituire al regno animale una propria autonomia rappresentativa, scevra da implicazioni simboliche o allegoriche. Se vogliamo, Terk si pone agli antipodi rispetto al pensiero di Charles Le Brun, il pittore ufficiale di Luigi XIV, che ebbe un ruolo chiave nella transizione dalla fisiognomica magica del Cinquecento a quella razionale del Seicento. Secondo Le Brun, che derivava il suo metodo dal disegnatore e studioso di zoomorfismo Giovan Battista Della Porta, era possibile desumere vizi e virtù di un individuo dalla comparazione tra la fisiognomica umana e quella animale. In pratica, il pittore francese, le cui teorie influenzarono la ricerca scientifica del Secolo dei Lumi, era convinto che la conformazione facciale rivelasse, attraverso l’individuazione delle tracce di “animalità”, il carattere degli uomini. Così, ad esempio, un volto grifagno era il sintomo di un carattere simile a quello di un rapace predatore, mentre una fisionomia leonina rivelava un’indole regale e coraggiosa. In sostanza, la teoria lebruniana portava al massimo grado il meccanismo proiettivo della visione antropocentrica.
Con i lavori qui presentati, Terk si chiede, invece, se sia possibile, dall’esterno, capire l’intima natura di un animale e quindi rappresentarlo non così come noi lo vediamo, ma come esso si vedrebbe. “Ma se, come io credo, ciò non è possibile”, ha scritto l’artista, “come potrei, io, un uomo, rappresentarlo senza ricorrere alle mie vecchie categorie?”. L’unica possibilità consiste, secondo Terk, nel considerare gli animali come puri esempi di bellezza, fenomeni che si dispiegano in una successione di pattern e texture, di motivi creati dalla ritmica ripetizione delle configurazioni naturali e organiche dei piumaggi, dei manti, delle pelli. Insomma, con i suoi Animals for Lorenzelli Arte, Terk sembra avvicinarsi alla Fenomenologia di Husserl, cioè a quel metodo cognitivo che descrive i fenomeni per come essi appaiono, attraverso la sospensione del giudizio sulla loro natura e funzione (epoché fenomenologica). Eppure, Terk non intende offrirci una visione analitica degli animali, ma piuttosto una descrizione morfologica e ottica, in cui è possibile rilevare una ricorsività di forme, una frequenza di configurazioni e di strutture che ricalcano la ritmica delle giaculatorie mistiche e dei sacri mantra.
Nato a Dresda nel 1950 e cresciuto nell’avverso clima culturale della DDR, a contatto con artisti come A. R. Penck, Haral Gallasch e Wolfgang Opitz, con i quali peraltro, tra il 1971 e 1976, prende parte all’esperienza del collettivo Lücke TPT, Terk dimostra di avere un atteggiamento anti-romantico nei confronti della pittura, che lo ha portato ad interessarsi più al processo creativo, al modus operandi, piuttosto che ai contenuti simbolici o emotivi. Non è un caso che proprio l’esperimento della Lücke TPT si configurasse come una sorta di “gioco pittorico” in cui gli artisti collaboravano alla creazione di ogni tela, seguendo un metodo codificato che lasciava assai poco spazio all’improvvisazione narcisistica. Il gioco consisteva in tre possibili variazioni procedurali, basate sulle stesse regole. La prima variazione prevedeva che ognuno dei quattro artisti, a turno, facesse la propria “mossa” in una parte qualsiasi del quadro. La seconda variazione consisteva nella spartizione della superficie in quattro identiche strisce orizzontali. Infine, la terza variazione constava nella suddivisione della tela in quattro parti uguali (quattro triangoli ottenuti tracciando due diagonali oppure quattro quadrati ottenuti tracciando due assi ortogonali). In questo modo, il processo del dipingere assumeva i connotati di una disciplina collettiva, che teneva a distanza l’influsso degli apporti emotivi, ma senza sopprimere le caratteristiche individuali di ogni segno.
Ora, la pittura di Steffen Terk si configura, ogni volta, come la risposta a un quesito, a una domanda sulle possibilità cognitive di questo mezzo, insieme antico e moderno. Mentre l’esperienza della Lücke TPT, giustamente celebrata in una recente mostra antologica alla Villa Eschenbach di Dresda, dimostrava che nell’ambito di un lavoro di gruppo codificato, più l’artista prende le distanze da se stesso, più è in grado di sviluppare il processo della creazione, le nuove opere della serie Animals for Lorenzelli Arte cercano di verificare la possibilità di rappresentare un soggetto non come esso ci appare, con il suo inevitabile retaggio di nozioni acquisite, ma come esso realmente è. Paradossalmente, nella consapevolezza di non poter comprendere la reale natura degli uccelli e dei felini, dei canidi e degli insetti, Terk si affida alla morfologia. Infatti, potendo disporre solo dell’aspetto, della sembianza, della foggia esteriore degli animali come elementi oggettivi, egli elabora una pittura di forme allo stesso tempo figurali e astratte in cui le trame e gli orditi, gli intrecci e i pattern scivolano gli uni sugli altri, confondendosi con la ritmica anulare dei fondali.
In questa carrellata di opere, aleggia un mistero, un enigma, quasi che l’artista voglia lasciar trapelare dalle texture che formano l’epidermide dei suoi animali un’indole fondamentalmente aliena. Le bestie di Terk sono, infatti, prive di connotazioni psicologiche, simboliche o, peggio, emotive. Non avvertiamo in esse alcun senso di familiarità che ci induca a preferirne alcune a discapito di altre. “Nessuno degli animali che ho dipinto”, ha affermato l’artista, “è stato dipinto con tenendo conto di un senso di preferenza. Nessuno è più bello, più forte o migliore degli altri”. Gli unici elementi discriminanti riguardano, piuttosto, la foggia, la qualità metamorfica delle superfici, la malia delle livree, la maculatura dei pelami, la compagine degli esoscheletri e la compattezza muscolare, strutture che Terk traduce in segni. Segni che, a loro volta, dialogano con la fitta maglia dei cerchi e degli anelli che formano l’impalcatura dei fondi e creano, infine, una fertile commistione tra impulsi iconici e aniconici.