Il comunicato dettava: Hoffman è stato trovato morto il 2 febbraio scorso nell’appartamento che aveva affittato qualche mese prima a Manhattan, con una siringa ancora infilata nel braccio: il coroner ha stabilito che la morte è stata “accidentale” e che la causa ufficiale, come si legge nei documenti, sarebbe stata una “intossicazione acuta da mix di droghe e farmaci.”
Se si sia trattato di un suicidio volontario o meno è un dibattito sterile. Il dato è che Philip Seymour Hoffman sembrava davvero un predestinato in quel senso. Nelle sale viene distribuito in questi giorni Synecdoche, New York, diretto da Charlie Kaufman, soprattutto con Seymour Hoffman. Trattasi di opera complessa, anzi, complicata, che vive su molti, troppi piani, temporali, stilistici, di linguaggio, e di scrittura. Alcuni critici si sono fatti ingannare dalla scrittura, certo suggestiva, ridondante, magari ricca, ma “cinematografica”, cioè più attenta a “stupire con effetti speciali”, che alla sostanza e alla verità della scrittura vera… quella dei romanzi per capirci. Ho visto in giro, su quotidiani leader, le cinque stelle, cioè il massimo del giudizio. Non ci sta. Il film è da tre stelle. Ma non è questo il centro del focus. Il film è stato presentato a Cannes nel 2008, i distributori italiani hanno ritenuto che non ci fossero le qualità per un incasso decente, così non lo hanno acquistato. La morte dell’attore lo ha così… cinicamente rilanciato. A posteriori, a fine avvenuta, posso dire che quel film racconti, tragicamente, la vicenda di un destino che andava a compiersi. Il disagio terribile, la dipendenza, la patologia esistenziale di Seymour Hoffman, si rivela, viene allo scoperto senza sconti, l’uomo si ritrova nudo. Non gli rimangono scelte. Sono passati sei anni da quel lavoro, ma lo status dell’uomo era già definito, radicato, da molto tempo prima. Synecdoche, New York è comunque di grande attualità. E’ come se l’attore lo avesse girato pochi giorni prima del… ritrovamento.
Caden Cotard è un regista teatrale confuso. La sua vita è un disastro. La moglie lo odia e lo lascerà portandosi via la figlia. Il lavoro stagna. Qualche possibilità sentimentale si profilerebbe, ma l’uomo niente sa cogliere. Orina sangue, le feci sono verdi, ai denti occorrerebbe un intervento devastante, la pelle si sfalda, le ossa si disfano, le pupille rivelano qualcosa al cervello. Vince un premio che gli porta un bel gruzzolo, che intende investire per un lavoro che cambierà il mondo. Scrive e riscrive, assume tecnici, attori, scenografi, insomma tutti quelli che servono. Fa continue riunioni creative, parlano e parlano. Lui propone poi cambia idea. Passano gli anni, i rapporti si evolvono: dialettica con se stesso, il suo alter ego. Gli alter ego poi diventano due e ciascuno rimuove il coltello nella piaga dell’altro. Caden invecchia, poi ringiovanisce. Insomma… “stupire con gli effetti speciali”. “Alter ego” richiama qualcosa di importante. Citazione nobile. Guido era l’alter ego di Fellini in Otto e mezzo: il regista senza più ispirazione che costruisce quell’immensa struttura di tubi che non serviranno a niente. Caden ha la sua struttura: beninteso, non è Guido e Kaufman non è Fellini che pure era un ottimo scrittore, ma aveva la prudenza, e l’intelligenza, di ricorrere ad autori veri come Guerra e Flaiano. Il gioco temporale gli fa trovare la figlia, adulta, che era stata la “bambina più tatuata del mondo”, come progetto di una artista matta, ignorata dal regista. E il poveretto si sente accusato dalla figlia, di assenza, di crudeltà, di tutto. Anche di omosessualità, e lui non era a conoscenza della novità. Ci sono momenti di testo che fa colpo, come ho detto sopra e, tutto sommato è un film da vedere, nel concetto relativo, di ciò che propone il cinema in questa epoca.
Alla fine Caden percorre una strada che rappresenta la sua vita, rifiuti, uomini e donne distrutti, alla deriva, carcasse di automobili e di tutto. E voci che lo chiamano: “hai pensato solo a te stesso, non ti è importato niente di niente di tutto il resto.” Si guarda intorno e dice “soffro, perché tutto è finito”. Se queste parole non sono un testamento… E così, a Philip, assumendo tutto questo, specchiandosi e ritrovandosi in Caden, restavano poche scelte. Anzi, gliene restava una sola. Di Pino Farinotti