Valerio Adami

di Ivan Quaroni

9.Déjeuner sur l_herbe, 1967, acrilici su tela, 73x92 cm

Déjeuner sur l’herbe, 1967, acrilici su tela, 73×92 cm

“Come ho spesso scritto, ogni mio quadro nasce e prende la sua vita nel disegno, in quel foglio di carta di 36×48 centimetri, il cui formato i miei occhi e la mia mano conoscono e possiedono oramai da tempo, e subito dominano”.[1] Con queste parole, scritte a Parigi nel 2015, Valerio Adami avverte, ancora una volta, il bisogno di rimarcare l’importanza di una pratica su cui ha fondato l’intero corpus della sua opera. Adami si dedica, infatti, al disegno con grande assiduità fin dal 1952 quando, iscritto all’Accademia di Brera, prende a frequentare i corsi di Achille Funi. Sotto il suo magistero, apprende la tecnica e la disciplina quotidiana del disegno e quel procedere “in forma chiusa” da cui deriva il forte senso di rigore e pulizia formali. “Da allora”, ammette Adami, “non c’è stato giorno in cui, gomma e matita alla mano, non abbia inseguito i miei pensieri con il disegno”.[2]

Adami inizia, però, a dipingere già qualche mese prima, nello studio di Felice Carena a Venezia, dove conosce Oskar Kokoshka, il grande artista austriaco che in quei giorni espone alla Biennale un suo grande trittico sul mito di Prometeo che lascia una profonda impressione sul giovane artista. In quello stesso anno, Adami visita anche il Salon de Mai a Parigi, dove incontra il poeta Eduard Glissant, grazie al quale entrerà in contatto con Sebastian Matta e Wilfredo Lam. Ma è, questo, solo il primo di una serie interminabile di viaggi e d’incontri che forgeranno la sua cultura cosmopolita.
Mentre la generazione uscita dalla guerra trova nell’Informale e nell’Astrazione la risposta ai problemi compositivi, gli esordi pittorici di Adami avvengono, piuttosto, sotto l’egida dell’espressionismo. I suoi quadri con i fondi neri degli anni Cinquanta guardano, infatti, a Kokoshka, ma anche a Francis Bacon e Sebastian Matta. Tuttavia, all’artista non interessa la pittura degli stati d’animo e dell’inconscio, ma la ricostruzione dello spazio del quadro e di un nuovo linguaggio figurativo.
Già nel 1959, in occasione della mostra personale alla Galleria del Naviglio di Milano, Emilio Tadini nota come, nello sviluppo della sua pittura, l’artista non sia “caduto” nella soluzione tachiste e nell’espressionismo astratto: “Adami si è reso conto che è necessario disintegrare dall’interno la sostanza della vecchia convenzione visiva: e ricostruire una nuova possibilità figurale”.[3]La cultura visiva di Adami, alla fine degli anni Cinquanta, subisce soprattutto l’influsso della lezione di Matta e il suo modo di comporre l’opera, fino al 1958 incentrato sull’analisi del personaggio, secondo Enrico Crispolti “si apre ad una più ampia rete di relazioni: al personaggio subentra il fatto”.[4]
Il concetto di “fatto” deriva dal pensiero di Wittgenstein, il quale riteneva che la realtà fosse un insieme strutturato di fatti e che un fatto fosse, a sua volta, una struttura organizzata di cose che non possono essere ulteriormente suddivise in altri elementi. Adami si serve di questo concetto per emancipare lo spazio del quadro dalla linearità della narrazione e dissolvere, dunque, la dimensione temporale in una sorta di simultaneità (com’è dato rilevare nell’olio su tela Senza titolo del 1960).
Alla “ricostruzione del quadro”, contribuiscono anche le riflessioni generate dagli ascolti musicali di Adami che, ispirandosi all’approccio formalista della dodecafonia, va maturando la convinzione che la pittura debba fare tabula rasa della psicologia e sostituire gli stati d’animo con i valori plastici.
“Il mio tentativo di trovare una trasposizione figurale al linguaggio dodecafonico”, confesserà più tardi, “corrispondeva alla volontà di chiudere nella forma un pensiero sul tragico”.[5]
Proprio la ricerca di un nuovo linguaggio lo avrebbe portato, entro qualche anno, a reintrodurre nel quadro il colore e a inserire elementi tipici del fumetto, come la forma dei balloon, le linee a trattini e le parole onomatopeiche.

4.Senza titolo, 1963, matita e acquarello su carta, 52,5x69 cm

Senza titolo, 1963, matita e acquarello su carta, 52,5×69 cm

I disegni e le tele dei primi anni Sessanta (tra cui, ad esempio, l’olio Senza titolo del 1963, l’acrilico del 1964 intitolato Polish e le diverse carte eseguite nello stesso periodo) testimoniano come l’artista, pur non essendo un lettore di fumetti, si serva di quei significanti grafici per consolidare le linee di forza delle sue composizioni e accentuarne il carattere sonoro, insieme dissonante ed esplosivo.
Il 1963 è l’anno in cui Adami realizza opere come Alice nel paese della Violenza, Invito al Crash e Auto-suggestione, dove emerge una chiara tendenza compositiva alla metamorfosi delle forme. A tal proposito, Alain Jouffroy osserva che “Adami integra, fonde, concilia: vuole legare ciò che è separato, risolvere gli antagonismi, e trovare nella dispersione, la diversità, il dissidio e la discordia, la chiave di una felice comunicazione – un voto di unità con lo spettatore”. [6]
Gli anni che intercorrono tra le partecipazioni a Documenta III di Kassel (1964) e alla XLII Biennale di Venezia (1968), sono quelli in cui si precisa il linguaggio pittorico di Adami, sempre più contrassegnato da colori piatti imbrigliati in una trama disegnativa dai contorni marcati, in cui compaiono, quasi ibridandosi, oggetti banali e feticci erotici della società dei consumi, secondo una formula solo apparentemente debitrice delle iconografie del fumetto e della Pop Art.

In verità, Adami porta alle estreme conseguenze un iter compositivo in cui l’osservazione esteriore della realtà si fonde con una pletora di associazioni mentali che a quella stessa realtà forniscono una struttura e un ordine interiori. Lo intuisce, più di altri, Carlos Fuentes quando nel testo pubblicato in occasione dell’esposizione dell’artista alla Biennale del 1968 scrive: “[Adami] ha detto a se stesso che tutto quel che usciva fuori era prima entrato dentro, e che tutto quello che entrava era prima uscito; e io che l’ho sentito pensare, gli ho risposto che la differenza stava tutta qui, perché oggi succede che tutto ci viene imposto dall’esterno, mentre fino a poco tempo fa niente aveva importanza se non c’era imposto dall’interno e dunque siamo andati in giro dimidiati, zoppicando da un piede o dall’altro, tra i pieni poteri dell’oggetto o del soggetto, tra il realismo e il solipsismo”.[7]

11.Chi è la vittima, 1973, acquarello su carta, 77x56 cm

Chi è la vittima, 1973, acquarello su carta, 77×56 cm

Quel che lo scrittore messicano sembra rilevare, pur non menzionandolo direttamente, è lo scarto tra la procedura della Pop Art, orientata alla descrizione degli epifenomeni della società dei consumi, e l’operazione di Adami, in costante oscillazione tra la dimensione reale e mentale, tra l’osservazione e la “visione”. Il disegno di Adami – come dirà molto più tardi Loredana Parmesani – “oppone all’immagine della pop art, che dal basso della cronaca tenta di innalzarsi alla storia, una cultura alta che sa abbassarsi al colorito del mondo”.[8] Insomma, l’artista bolognese non si sottrae alla responsabilità di esprimere la propria “visione”, di proiettarla sulla realtà, consapevole – come avverte Fuentes – che “niente esiste in sé e tutto è parte di una struttura: di una somma di rapporti”.[9] La sua strategia disegnativa implica un’attività intellettuale, ideativa, in grado di organizzare le associazioni mentali, proiettandole sull’immagine oggettiva, reale.
Le due evidenze, quella esteriore e quella interiore, raggiungono una sorta compromesso nel processo formativo del disegno. La progettualità di Adami, infatti, si declina in itere, nel farsi stesso dell’immagine, linea dopo linea, attraverso uno svolgimento erratico che alterna affermazioni e ripensamenti, segni e cancellazioni.
“Così è come agisco io”, racconta l’artista, “quando disegno: mi metto di fronte ad un interno con figure, per esempio, e lo penso così com’è. Cioè non lo guardo soltanto: lo penso così com’è. E poi è come se l’immagine facesse un viaggio, dalla sua apparizione attraverso un nuovo spazio. Io divento spettatore e protagonista: nel mio inconscio si muovono allora altre associazioni. La mia mano segue questo percorso privato, organizza questi impulsi dando nuove forme oggettive all’oggettività da cui si era mossa”.[10]

16.New york stock exchange, acrilici su tela, 130x97

New york stock exchange, acrilici su tela, 130×97

Mentre i disegni recano i segni delle cancellature, registrando la natura metamorfica dell’immagine che si va costruendo, i suoi quadri, che pure da quei disegni derivano, come una sorta di riproduzione amplificata, appaiono ben più severi, quasi cristallizzati.
Il nitore formale e la rigorosa pulizia compositiva dei Miraggi e dei Toys, si riversa, nella seconda metà degli anni Sessanta, in una pletora d’interni domestici, anonime camere d’albergo, bagni pubblici, scuole di ballo, palestre. Luoghi che a New York Adami archivia in ordinate schede fotografiche. Opere come Studio per un grand hotel (1966), Interno con tappeto (1966) e Déjeuner sur l’herbe (1967) appartengono a questa fase, peraltro caratterizzata da una riflessione sui metodi di scomposizione del cubismo analitico e da un’evidente austerità stilistica. “Chi non ha avvertito”, scrive Jean François Lyotard, “guardando i quadri di Adami da vent’anni a questa parte, la loro severità?”.[11]

Quella proverbiale severità formale andrà, in effetti, acuendosi nei lavori successivi. Basti osservare, a titolo esemplificativo, la sequenza dei tre acquarelli in mostra: La scuola di ballo (1970), Tennis (1973) e Chi è la vittima (1973). “Le opere di Adami”, nota, infatti, il filosofo francese, “avevano sempre indurito ciò che mostravano per far rimpiangere una santa dolcezza scomparsa”.[12]
L’elemento tragico, già presente nelle solitarie e transitorie intimità delle stanze d’albergo, si estende in seguito anche alla rappresentazione dell’umano. In particolare, alla sequela di ritratti di letterati, filosofi, musicisti, artisti. Benché i primi ritratti siano eseguiti negli anni Sessanta (Henri Matisse che lavora a un quaderno di disegni e Nietzsche), è soprattutto dal decennio successivo che essi diventano ricorrenti nell’opera di Adami, insieme all’inclusione di quegli elementi calligrafici che, secondo José Jimenéz, “operano come riduttori antropologici, come vie d’accesso alla nostra umanità latente”.[13]
Ma i ritratti di artisti e pensatori, come pure la presenza di libri e parole, testimoniano il tragico senso di perdita del sentimento naturale, il rimpianto, appunto, della santa dolcezza scomparsa.
La natura sopravvive nella cultura e nel pensiero e ha i tratti di una metamorfosi ovidiana in cui il corpo umano, tempio sacro per gli antichi, assume posizioni forzate e innaturali (si vedano, ad esempio, Il violinista del 1985, Studio per In vista della costa del 1995 e We are proud of you del 1997). “Non solo appaiono frammentati e sovrapposti”, spiega Jimenéz, “ma anche in incessante transizione, rendendo visibile il transito che li interessa interiormente: la figura vestita, il nudo, i muscoli sotto la pelle, lo scheletro”.[14]

15.Violinista,1985, acrilici su tela, 46x55

Violinista,1985, acrilici su tela, 46×55

La qualità metamorfica si cristallizza nella rappresentazione simultanea di corpi, oggetti, paesaggi e quadri dentro il quadro, una fusione che tradisce, inevitabilmente, il trascorrere del tempo – “Si cammina fra le tombe, fra le nostalgie e i propri amori…”, dirà Adami.[15] Eppure, il rimpianto e la nostalgia per un tempo mitico, anche negli anni a venire, saranno sempre disciplinati e raffreddati nell’esercizio del disegno. Il presunto classicismo di Adami e tutti i riferimenti che costituiscono buona parte della sua Bildung culturale sono, infatti, l’emanazione diretta di un certo modo di concepire il disegno. Un modo che consiste nello sforzo di ordinare i segni, le forme e gli alfabeti sepolti nella memoria e di traghettarli, attraverso una disciplina che è innanzitutto cognitiva, dal caos degli impulsi a una forma logica di rappresentazione. D’altra parte, come afferma perentorio l’artista, “non sta al disegno suscitare emozioni, chi le vuole se le vada a cercare altrove, al cinema o allo stadio, un disegno le raffigura ma poco le provoca”


NOTE

[1] Valerio Adami, Note brade, in VALERIO ADAMI 1964-1999. GLI ANNI DI LONDRA, PARIGI, NEW YORK, CITTÀ DEL MESSICO…, Skira Editore, Milano, 2016, p. 13.
[2] Amelia Valtolina, Nulla dies sine linea. Una conversazione con Valerio Adami, in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 9.
[3] Emilio Tadini, Valerio Adami, Galleria del Naviglio, Milano, dal 17 al 26 ottobre 1959, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 19.
[4] Enrico Crispolti, Adami, Galleria L’Attico, Roma, 2 dicembre 1961, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 23.
[5] Amelia Valtolina, Nulla dies sine linea. Una conversazione con Valerio Adami, Op. Cit., p. 13.
[6] Alain Jouffroy, Valerio Adami, Galleria del Naviglio, Milano, dal 23 novembre al 6 dicembre 1963, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1956-1963. GLI ANNI A MILANO, Skira Editore, Milano, 2005, p. 29.
[7] Carlos Fuentes, Righe per Adami, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia, 1968, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1964-1999. GLI ANNI DI LONDRA, PARIGI, NEW YORK, CITTÀ DEL MESSICO…, Skira Editore, Milano, 2016, p. 27.
[8] Loredana Parmesani, Filo a piombo e filo-disegno, in GLI ADAMI DI ADAMI. OPERE DAL FONDO ADAMI PER L’INSTITUT DU DESSIN, Galleria del Gruppo Credito Valtellinese, Refettorio delle Stelline, Milano, dal 20 giugno al 9 agosto 1997, Skira Editore, Milano, p. 11.
[9] Carlos Fuentes, Righe per Adami, Op. Cit., p. 31.
[10] Valerio Adami, Sinopie, SE Editore, Milano, 2000, p. 17.
[11] Jean François Lyotard, Si direbbe che una linea…, in Gli Adami di Adami, Skira Editore, Milano, 1996, ripubblicato in VALERIO ADAMI 1964-1999. GLI ANNI DI LONDRA, PARIGI, NEW YORK, CITTÀ DEL MESSICO…, Skira Editore, Milano, 2016, p. 199.
[12] Jean François Lyotard, Si direbbe che una linea…, Op. Cit., p. 201-205.
[13] José Jimenéz, L’artista viaggiatore, in GLI ADAMI DI ADAMI. OPERE DAL FONDO ADAMI PER L’INSTITUT DU DESSIN, Galleria del Gruppo Credito Valtellinese, Refettorio delle Stelline, Milano, dal 20 giugno al 9 agosto 1997, Skira Editore, Milano, p. 52.
[14] José Jimenéz, L’artista viaggiatore, Op. Cit. pp. 55-56.
[15] Valerio Adami, Disegno & Confessioni, in GLI ADAMI DI ADAMI. OPERE DAL FONDO ADAMI PER L’INSTITUT DU DESSIN, Galleria del Gruppo Credito Valtellinese, Refettorio delle Stelline, Milano, dal 20 giugno al 9 agosto 1997, Skira Editore, Milano, p. 57.


INFO:
VALERIO ADAMI
a cura di Ivan Quaroni
Galleria L’Incontro, Chiari (BS)
via XXVI aprile 38, Chiari (Brescia)
Opening: Sabato 9 Dicembre 2017

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