di Ivan Quaroni
Marcel Duchamp, considerato all’unanimità il padre putativo dell’arte contemporanea, fu il primo a sentire la necessità di riportare la pittura nei confini della mente, tralasciando, per così dire, l’aspetto sensuale, legato all’emozione visiva e all’impressione retinica. Per lui, la pittura doveva avere a che fare con la “materia grigia” della nostra comprensione, invece di essere un’arte puramente visiva. Nel 1955, quando la galleria Denis René di Parigi inaugurò la mostra “Le Mouvement”, cui partecipa anche Duchamp, Vasarely non poteva sapere che, di lì a poco, sarebbe diventato l’artista retinico per definizione. Quello che, invece, Marcel Duchamp non immaginava, è che per Vasarely il problema ottico, retinico, non era riducibile alla mera rappresentazione di giochi visivi, ma aveva a che fare soprattutto con la comprensione dei meccanismi cognitivi dell’uomo. La stimolazione visiva diventava, così, un espediente per indurre nell’osservatore un’esperienza di ordine gnoseologico. “La posta in gioco”, scriveva Vasarely, “non è più il cuore, ma la retina”, vale a dire il processo stesso di percezione. Sarebbe quindi giusto dire che egli riuscì a essere, come nessun altro, un artista dell’occhio e del pensiero.
Le sue idee sul rapporto tra opera e osservatore, che poi sarebbero confluite nell’elaborazione dell’Unità Plastica, matrice fondamentale del suo linguaggio pittorico e plastico, maturarono in seguito a un’attenta riflessione sul pensiero di Josef Albers. Albers aveva elaborato una teoria che distingueva tra l’opera (che chiamava l’attuale) da ciò che essa era capace di comunicare (che, invece, definiva fattuale), ossia dalla reazione che il cervello dell’osservatore sviluppava in seguito all’esposizione visiva. Fin dagli anni Trenta, Vasarely aveva intuito l’importanza di un approccio all’opera, per così dire, purovisibilista, che certamente derivava dalla sua formazione al Mühely di Budapest, la scuola privata fondata da Alexander Bortnyk sul modello del Bauhaus. Il corso di studi proposto da Bortnyk proponeva una formazione in varie discipline, come pittura, architettura, arte decorativa, teoria del colore e approfondiva soprattutto il rapporto tra arte e tecnica.
Dopo il suo trasferimento a Parigi, l’artista ungherese aveva iniziato a sperimentare la possibilità di creare la vibrazione ottica sulla superficie dell’opera. Com’è noto, egli si dedicò alla grafica pubblicitaria durante tutto il primo decennio di permanenza nella capitale francese, ma ebbe comunque il tempo di continuare i suoi studi sulla percezione con una serie di carte e oli su tela in cui rappresentava motivi di zebre e tigri attraverso strisce e reticoli di linee. Si trattava di lavori grafici eseguiti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la sua attività di pubblicitario era rallentata a causa della carenza di commissioni. Durante questo lasso di tempo – uno iato obbligato dalle difficili circostanze economiche – Vasarely ebbe l’opportunità di ripensare alla lezione della pittura astratta delle Avanguardie, dedicandosi all’esecuzione di lavori ispirati alle ricerche espressioniste, futuriste e cubiste dei primi del Novecento. Più tardi, nel 1947, avrebbe liquidato questa produzione, rubricandola sotto l’etichetta di Fausses routes (passi falsi). Tuttavia, quelle opere, ebbero il merito di avvicinare il maestro ungherese alla sua futura produzione astratto-geometrica, consentendogli di individuare nello spazio e dunque nella sua percezione, il leit motif di tutta la sua ricerca.
Lo spazio, inteso non solo come sinonimo della terza dimensione, ma anche come dominio degli universi microscopici della fisica subatomica o di quelli cosmici della geografia astronomica avrebbe, infatti, costituito una fonte d’ispirazione fondamentale nelle indagini di Vasarely degli anni a venire. Alla fine degli anni Quaranta, Vasarely affrontò il problema della percezione dello spazio attraverso l’osservazione del paesaggio di Belle-Isle, che tradusse in una sintesi di forme ellittiche e ovoidali ancora leggibili in chiave naturalistica. Nei lavori, invece, del Periodo Denfert, quasi coevo, l’artista attuava un processo inverso. Guardando le piastrelle della stazione metropolitana di Denfert-Rochereau, costruìe forme astratte come fossero reali, assecondando la tendenza dell’occhio umano a scorgere figure in uno schema casuale. All’epoca, per Vasarely la natura e il paesaggio antropico erano ancora punti di partenza per lo sviluppo di un linguaggio pittorico astratto. Quando alla fine degli anni Quaranta acquistò una cascina nel borgo medievale di Gordes, rimase affascinato dalla struttura affastellata delle case e dalla loro “multiformità fluttuante”, che fissò negli Etude pour Gordes. L’opera intitolata Ironta, un olio su tela del 1950 riferibile a quel periodo, dimostra come la riflessione di Vasarely intorno al problema della percezione delle strutture spaziali coincidesse con la messa a punto di un linguaggio svincolato dalla rappresentazione naturalistica.
La svolta definitiva avvenne, tuttavia, in seguito all’introduzione dello schema del cubo assonometrico e del cubo di Keplero nelle sue opere, che producevano un effetto ottico che l’artista conosceva fin dai tempi di Mühely e che sarebbe culminato nei lavori della serie Hommage à Malevic (1952-1958), in cui reinterpretò il famoso quadrato nero, rendendolo più dinamico. Il cubo assonometrico, costruito da due superfici quadrate collegate da linee parallele, sembrava sottrarsi alla percezione univoca. Le sue forme sfuggenti e dinamiche, infatti, obbligavano l’osservatore a cambiare continuamente il proprio punto di vista. Lo stress ottico e cognitivo del riguardante diventò, così, un elemento precipuo della ricerca di Vasarely, che venne poi accentuato nei successivi Fotografismi e nei Quadri Profondi Cinetici, opere che richiedevano una partecipazione diretta dell’osservatore, il quale spostando il proprio punto di vista si trovava a osservare immagini diverse.
Nel caso dei Quadri Profondi Cinetici la variazione ottica dell’opera era prodotta distanziando delle lastre di plexiglas su cui erano riprodotte le immagini dei suoi Fotografismi. In questi ultimi, invece, le linee tracciate su piccoli disegni in bianco e nero, venivano trasposte su lastre fotografiche mediante illuminazione diretta, producendo effetti di vibrazione ottica. Si tratta di lavori in cui la percezione dello spazio diventava instabile. La vocazione dinamica di queste pellicole fotografiche suggerì a Vasarely l’idea di una nuova serie, intitolata Noir et Blanc, in cui il positivo e il negativo di una lastra fotografica venivano a coincidere in un’unica immagine dipinta su tela. L’effetto finale è quello di piani che slittano l’uno verso l’altro, creando una spazialità instabile, che allunga i tempi di percezione, sottraendosi, ancora una volta, a una definitiva impressione. Di questo periodo sono anche i collage in bianco e nero sul tipo di Bukk (1954), che Vasarely considerava come dei test, utili a comprendere l’origine delle immagini astratte.
Nel 1955, in occasione della mostra “Le Mouvement” alla galleria Denis René, uscì il Manifesto Giallo, in cui tutte le precedenti intuizioni di Vasarely si composeroo in una teoria coerente e nella formulazione di un linguaggio pittorico basato sulla composizione di elementi geometrici che egli definisce unità plastiche. L’Unité plastique era un quadrato colorato di 10 centimetri di base in cui veniva inserita una forma geometrica più piccola e di diverso colore, come un cerchio, un rettangolo o un quadrato, che costituiva l’elemento fondamentale di un abbecedario figurativo. Questo Alfabeto Plastico, giocato sulla successione di diverse combinazioni di unità plastiche, diede vita alle opere di Folklore Planétaire e Permutazioni, due serie di acrilici su tela che non solo avvaloravano le intuizioni dell’artista sulla percezione ottica, ma che dimostravano, altresì, l’efficacia di un sistema compositivo altamente riproducibile. Vasarely era, infatti, convinto che le concezioni sulla genialità dell’artista e sull’unicità dell’opera fossero un retaggio del passato. L’invenzione dell’unità plastica, componibile in un’infinita gamma di accostamenti e riproducibile attraverso i mezzi di stampa industriale, prefigurava la possibilità di aprire l’opera alla dimensione collettiva.
Negli anni Sessanta, utilizzando i prototipi di unità plastica stampati in migliaia di fogli colorati, collaborò con alcuni assistenti alla realizzazione di dipinti, sculture, grafiche, tappezzerie e altro, semplicemente scegliendo la sequenza degli accostamenti. Questo vero e proprio metodo, gli consentì di dimostrare che le sue idee in merito a un arte sociale e democratica potevano essere finalmente realizzate. La sua aspirazione era, infatti, quella di creare “un’arte per tutti”, universalmente comprensibile. L’architettura si offriva, quindi, come il luogo ideale per l’applicazione pratica di questo concetto, proprio perché non richiedeva al pubblico la frequentazione di luoghi specifici come le gallerie e i musei. Già nel 1954, Vasarely collaborò alla decorazione del campus universitario di Caracas. Nel 1965, invece, intervenne sulle strutture architettoniche della Gesamthochscule di Essen, mentre nel 1968 realizzò un intervento sulla tribuna della pista di pattinaggio veloce su ghiaccio di Grenoble. Tra il 1970 e il 1975, l’artista progetta la Cité polychrome du bonheur, visione di architettura urbanistica utopica in cui dimostra le possibili applicazioni dell’unità plastica e dei Prototypes-départ. I bellissimi studi su cartone (Études sur carton BV), realizzati con la tecnica del collage nel 1970, illustrano perfettamente quell’idea d’integrazione delle discipline (pittura, architettura, artigianato), che sarebbe poi sfociata nella costruzione della Fondation Vasarely di Aix-en-Provence, una vera e propria opera d’arte totale, interamente progettata e finanziata dall’artista.
Ma facciamo un passo indietro. Per Vasarely, l’ossessione dello spazio non si riduceva alla semplice considerazione del piano naturale e fenomenologico. Certo, egli considerava le sue unità plastiche come una sorta di “controparte delle stelle, degli atomi, delle cellule e delle molecole, ma anche dei granelli di sabbia, dei ciottoli, dei fiori e delle foglie”[1], ma il suo punto di riferimento non era più l’oggetto fisico e la forma esteriore della natura, ma la percezione intuitiva degli ordinamenti dell’universo. Negli anni Sessanta, le opere di Hommage à l’Hexagone, ma anche le serie Tridim e Bidim, testimoniano una ripresa del tema della spazialità instabile attraverso paradossi ottici. Gli acrilici su tela Axo-1-4 (1968), Tridim-N (1968) e Polos (1972-88), presenti in questa mostra, trasmettono una potente illusione spaziale che l’occhio non riesce a risolvere e che l’artista paragonava a un “perpetuum mobile” in trompe l’oeil.
Il problema della rappresentazione dello spazio in Vasarely è strettamente connesso al suo interesse verso le ricerche scientifiche nei campi della teoria della relatività, della meccanica ondulatoria, dell’astrofisica e della fisica quantistica. Il suo approccio, però, rimaneva essenzialmente intuitivo, poetico e non scientifico. I lavori della serie CTA – di cui l’acrilico su tela CTA 105A del 1966 è un tipico esempio – cercavano di trasmettere, per via intuitiva, l’emozione che si sarebbe provata di fronte al cosmo infinito. Secondo Werner Spies, i CTA costituivano un modello di “poesia scientifica e gnoseologica”[2], poiché derivavano il loro nome da un lontano sistema planetario scoperto negli anni Sessanta. Alcuni scienziati avevano interpretato i segnali provenienti da quelle lontananze siderali come messaggi di forme di vita extraterrestre. Probabilmente sulla scorta delle sue letture scientifiche, Vasarely si era, infatti, persuaso che esistesse una vita nello spazio cosmico, oltre i confini del mondo conosciuto.
Tuttavia, lo spazio era per lui un’ossessione risolvibile solo in termini di comprensione dei meccanismi percettivi. I lavori della serie Vega (il nome dalla stella più luminosa del cielo), mostravano come fosse possibile creare effetti di curvatura concava e convessa dello spazio, rimpicciolendo o ingrandendo le unità quadrate della griglia di fondo. Nelle opere della serie Vonal, invece, un fitto reticolato di linee rette (o curve) danno l’impressione di un vortice spaziale che risucchia lo sguardo dell’osservatore. Per la prima volta, Vasarely si allontanava dall’impiego di elementi standardizzati come le unità plastiche. Le linee e i trattini che componevano le opere di Vonal conservavano un margine d’errore che lasciava presagire un ripensamento da parte dell’artista sulla libertà del processo creativo. E proprio qui, in questa irriducibilità dell’atto creativo a una definitiva identificazione con le categorie della programmazione e della riproducibilità, risiede il valore “poetico” della ricerca di Vasarely, una pratica in perpetua oscillazione tra arte e scienza, tra teoria e pratica, tra funzionalità e fantasia.
La Galleria L’Incontro presenta la mostra di Victor Vasarely “La vita nello spazio” in collaborazione con la Fondazione Vasarely di Aix-en-Provence . La mostra raccoglie una ventina di opere del maestro ungherese, fondatore, insieme a Bridget Riley, dell’Op Art. Appartenenti a diversi cicli, i lavori qui proposti coprono un periodo che va dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta e che testimoniano l’evoluzione dell’artista, prima e dopo la formulazione del “principio di unità plastica”, fondato sull’inserimento di forme geometriche una dentro l’altra con colori e sfumature diverse, per dare un’impressione di movimento alla figura.
Victor Vasarely (Pecs 1908-Parigi 1997) si forma a Budapest, dove frequenta l’Accademia Mühely, diretta da Sandor Bortnyik, il quale s’ispirava alle teorie del Bauhaus. Traferitosi a Parigi nel 1930, entra in contatto con il gruppo Abstraction-Creation e con il De Stijl, dedicandosi alla grafica pubblicitaria fino al 1943. In quegli anni, l’artista si interessa alle ricerche ottico-cinetiche, lavorando su fogli di cellofan sovrapposti per ottenere effetti di profondità e trasparenza. A Parigi conosce Denis Renè, che nel 1944 ospita nella sua galleria la sua prima personale parigina. Nel 1955 scrive il Manifeste Jaune e i suoi esperimenti sulle impressioni di movimento provocate dall’illusione ottica lo portano ad elaborare un nuovo linguaggio che ha come fondamento l’unità plastica di forma, luce e colore. In quello stesso anno, la mostra alla galleria di Denis Renè, insieme a Yaacov Adam, Nicolas Shoffer, Pol Bury, Rafael Soto, Jean Tinguely, Marcel Duchamp, Alexander Calder, segna la nasciat della Op Art, un nuovo movimento caratterizzato dalla tendenza verso il cinetismo, che affonda le radici nelle ricerche del Pointillisme, del de Stijl e del Bauhaus.
Alla fine degli anni Cinquanta Vasarely elabora la teoria dell’Alfabeto Plastico, applicato nelle opere delle serie Folklore Planetaire, CTA, Vonal e Vega. Gli anni Sessanta segnano la definitiva ascesa di Vasarely, che espone prima al MoMa di New York, con la mostra “ The Responsive Eye” (1965), poi al Musèe de l’Art Moderne de la ville de Paris, con la “Lumière et Mouvement”(1967) Negli anni successivi, Vasarely rafforza il suo impegno nel dialogo tra arte e architettura, con l’intento di migliorare la società dal punto di vista etico ed estetico. Significative espressioni di questo periodo sono la costruzione del museo didattico nel Castello di Gordes nel 1970 e l’edificio della Fondation Vasarely di Aix-en-Provence.
La Triennale di Milano nel 2007 gli ha dedicato un importante antologica con opere provenienti da musei esteri e da collezioni private. Muore a Parigi nel 1977, all’età di 89 anni, Molte sue opere sono conservate in Ungheria, nei musei a lui dedicati a Pécs 1976 e Budapest 1987.
[1] Victor Vasarely, Folklore Planetaire, Monaco, 1973, p. 20, passo citato in Magdalena Holzhey, Victor Vasarely, Taschen, Colonia, 2005, p. 64.
[2] Magdalena Holzhey, Victor Vasarely, Taschen, Colonia, 2005, p. 71.