Dall’ultima grande mostra su Carlo Carrà, nel lontano 1994 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, al vuoto di grosse esposizioni non è corrisposto un vuoto storiografico, visto che gli studi sul pittore piemontese non sono mancati. Ciò non toglie che l’antologica della Fondazione Ferrero ad Alba (27 ottobre 2012 - 27 gennaio 2013) costituisca uno spunto importante di approfondimento. Lasceremo il grato, gratissimo compito ad altri – ma non rinunceremo a qualche notazione su aspetti specifici dell’opera di Carrà, muovendo da due opere presenti alla bella mostra in provincia di Cuneo.
Sarebbe suggestivo soffermarsi sulla dialettica serrata, e quasi subito polemica, tra Carrà e Giorgio De Chirico a Ferrara, dal marzo del 1917, con quest’ultimo internato nell’ospedale militare psichiatrico. Ma entrambe erano dati per matti, stando alla testimonianza di un altro grande pittore, che pure all’epoca si mosse per un periodo nella loro orbita, Filippo De Pisis: “in una settecentesca villa patriziale del suburbio, già dimora per gli onesti spassi estivi per il Seminario, i pittori De Chirico e Carrà in grigio-verde alternavano gli ozi militareschi alle pitture metafisiche. Sarei troppo ardito se dicessi che queste produzioni potevano essere pretesto ai bravi superiori per crederli un tantino malati di mente?”.
Una primavera dopo, nel 1918, in occasione di una mostra alla galleria del giornale L’Epoca a Roma, i due pittori evidenziano l’avvenuta divaricazione contendendosi originalità e corretta interpretazione della pittura metafisica. È una vicenda di umanissimi dispettucci, prima ancora che di scelte divaricanti. Intanto, ex post, vien da osservare come la diversità dei rispettivi numi giovanili potesse già implicare approdi diversi. A Parigi, nel 1900, Carrà annota con entusiasmo sul taccuino i nomi di Courbet, Delacroix, Gericault, degli Impressionisti, di Gauguin e di Cèzanne. Per De Chirico, pesa in primo luogo l’origine greca; il bagaglio letterario, con Nietzsche e Schopenhauer su tutti; ed a Monaco, soprattutto, la folgorazione di Arnold Böcklin e l’interesse per Max Klinger. Ma poi, soprattutto, Carrà attraverserà il Cubismo, cercando di dare ordine a certi furori futuristici; De Chirico farà spallucce su vip ed avanguardie di Parigi.
Proprio il ricordo di un parigino doc, invece, riaffiora assai più tardi in un’opera di Carrà, in esposizione ad Alba. Si tratta de I nuotatori del 1932, in cui il virile plasticismo delle figure si congela sull’armatura della superficie acquea non meno del clangore delle corazze dei battaglianti di Paolo Uccello – autore al quale, peraltro, Carrà aveva dedicato uno scritto nel 1916 (Paolo Uccello costruttore), lo stesso anno in cui pubblicò Parlata di Giotto. Ma l’accento italico, struttivo e solidificante, rivela un’inflessione francese, nella già notata influenza di Georges Seurat, per cui il dipinto riesce tale “da reggere senza sforzo al ricordo de La grand Jatte” (Roberto Longhi). Il cerchio, tuttavia, si chiude fin troppo facilmente, tenendo conto del commento che Edgar Degas espresse nel 1886, allorchè Seurat espose Una domenica pomeriggio alla Grand-Jatte alla Maison Dorée di Parigi: “Voi siete stato a Firenze! Voi avete visto Giotto”. Come dire: tutto nasce ad Assisi. Anche se poi, a ben vedere, il Giotto che potrebbe aver interessato di più Carrà è quello della Cappella Scrovegni, con le sue mature calibrature compositive, per quanto l'influenza principale resti di ordine plastico e volumetrico.
Più sorprendenti, invece, e sempre a partire da Seurat, possono essere altre due notazioni. Il francese – è risaputo – aveva scritto a proposito del sopraccitato dipinto nel 1888 a Gustave Kahn: “Le Panatenee di Fidia rappresentano una processione. Io voglio allo stesso modo ritrarre le persone del nostro tempo in ciò che hanno di essenziale, voglio ritrarle in quadri combinati in armonie di colori grazie alle direzioni delle tinte, e in armonia di tinte grazie al loro orientamento, disponendo linea e colore l’una in rapporto all’altra”. Seurat, che certo attingeva a piene mani da un pugno di trattati di ottica dell’800, pure doveva scontare una fascinazione tutta visiva, anziché intellettuale, nei confronti dei primitivi del Louvre: e con questi ultimi non intendiamo né i pittori del ‘400 italiano, quanto le civiltà antiche, assiro-babilonesi ed egiziani in primis, le cui suggestioni affiorano dall’incessante attività grafica nel tentativo di decriptare quel fascinoso, sintetico linguaggio cifrato.
Adesso, però, il rapporto s’inverte, e il cerchio si chiude nell’altro senso. Perché si dà il caso che proprio in quel Louvre che Carrà visitava per la prima volta nel 1900, sia presente un cratere a calice a figure rosse, proveniente peraltro proprio dell’Italia, che in qualche modo sotto il profilo compositivo sembra riecheggiare nel galleggiamento delle figure sia della Grand-Jatte che dei Nuotatori. Si tratta del cratere del cosiddetto Pittore dei Niobidi, dal tema della strage dei figli di Niobe che compare proprio su quest’opera. Si osservi, in particolare, la sezione che mostra un'Artemide, colonnare come l'Ulisse di spalle di Böcklin poi ripreso da De Chirico, che estrae con studiata eleganza la freccia dalla faretra, ed Apollo che si appresta a scagliare la freccia facendo perno sul nervoso polpaccio: il quadro di Carrà sembra riprendere la disposizione scalata dei personaggi, in particolare tutta la parte in basso a destra, con il nudo giacente del cratere singolarmente inarcato fino ad aguzzarsi come una trave imbarcata; nel quadro di Seurat, mentre ad Artemide sembrerebbe corrispondere la figura avanzante al centro della composizione, altrettanto statuaria, in basso a sinistra la giacente prende una posa piuttosto simile a quella del bagnante appoggiato sui gomiti nell’angolo.
E reinvertiamo, per la terza volta, il cerchio: nel lato del cratere con Minerva ed Eracle, la composizione può fa venir in mente l’immediato precedente della Grand-Jatte, Un bagno ad Asniéres, con tre personaggi che si scalano in diagonale dall’alto a sinistra in basso a destra, e persino la figura sdraiata che accomoda nell’angolo sinistro; infine, il bagnante accovacciato in basso a sinistra del dipinto di Carrà sembra fondere il giovane al centro dell’opera di Seurat ma col gesto del bambino immerso nell’acqua, col cappellino rosso, come una versione contratta del giacente di questo lato del cratere di Orvieto.
Per quanto “forzosi”, questi echi di mimica e di mimetica valgono a far risuonare, con più stentorea evidenza, quelle armonie di ordine compositivo così attentamente studiate da Carrà, tornato già nel ’19 ad un ordine mai abbandonato, con la "parlata" dell'historia ordinata di Giotto, e così pedissequamente investite, a fine '800, dal nugolo cromatico di Seurat: un’invasione di puntini sulla struttura decorativa di un fregio o di una ceramica. Chissà cosa ne avrebbe detto il “greco” De Chirico.
Informazioni sulla mostra di Carlo Carrà
a cura di Maria Cristina Bandera
da un’iniziativa di Fondazione Piera, Pietro e Giovanni Ferrero
con la collaborazione di Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi
Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte
con il sostegno di Compagnia di San Paolo
Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo
catalogo 24 Ore Cultura
ufficio stampa Studio Esseci
Tel. 049.66.34.99
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date e orari: da sabato 27 ottobre 2012 a domenica 27 gennaio 2013
martedì - venerdì 15-19; sabato, domenica e festivi 10-19
lunedì chiuso
Giorni di chiusura 24, 25, 31 dicembre 2012, 1 gennaio 2013
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