Contagion (Recensione)

Contagion
di Steven Soderbergh
USA 2011

- Può contenere qualche spoiler -

Ci sono modi e modi di rappresentare la fine del mondo, o qualunque cosa gli si avvicini.
Molti prediligono le versioni splatter e pulp, fatte di sangue, violenze di massa e personaggi sopra le righe.
Altri optano per scenari più patriottici, come nel caso di tanti film americani su meteoriti, asteroidi, terremoti etc etc, in cui un pugno di valorosi cerca di evitare l'inevitabile (o quantomeno di portare a casa la pelle).
Altri ancora scelgono gli scenari catastrofici come base per raccontare storie di famiglie che si ricongiungono, in puro stile spielberghiano.

Io, per quel che mi riguarda, essendo di bocca buona, apprezzo molte varianti in materia. È da parecchio però che sogno una visione d'insieme, quasi geo-politica, di una fine del mondo qualunque. Meglio ancora se pandemica. Non a caso ho scritto il mio Scene selezionate della Pandemia Gialla così come lo avete letto e non in un altro modo.
Contagion dunque è il mio film.
Un film corale, che racconta un'epidemia come si credeva potesse essere quella di Aviaria o la Suina. Un'epidemia micidiale come lo è stata per davvero la Spagnola.
Insomma, un'emergenza sanitaria globale vista con gli occhi di molti personaggi e narrata con un realismo che fa più paura di tante altre apocalissi più fantasione (e quindi assai meno probabili).
Contagion è dunque una sorta di World War Z senza zombie, se mi concedete il paragone con un libro che ho citato mille volte qui sul blog.


Interessantissimo il punto di vista di Soderbergh, che per una volta rinuncia all'abusato cliché delle autorità violente e cattive che sfruttano l'emergenza per imporre un Nuovo Ordine Mondiale.
Al contrario - e mi viene da dire anche più plausibilmente - le autorità governative citate in Contagion agiscono in modo verosimile e umano: facendo sbagli, esagerando in taluni casi e operando per il bene collettivo in altri. Perché il fattore “umano” è questo: agire d'impulso, eccedendo nel giusto o nello sbagliato, ma sempre per un motivo, mai per il puro gusto entropico della distruzione, tipico di tanti improbabili overlord del cinema catastrofico.

Contagion è dunque una vera e propria demolizione delle varie teorie del complotto.
Scelta che può spiazzare, ma che almeno non sa di già visto.
La malattia, un ceppo encefalopatico particolarmente mortale, esiste, è reale e micidiale. Si sa a malapena come è nata ma si diffonde a ritmo esponenziale. La ricostruzione del percorso del virus, scandita dal freddo conteggio dei giorni della pandemia, è un piccolo capolavoro di coerenza e credibilità.
Dunque abbiamo questa situazione d'emergenza mondiale. Qualcuno ne approfitterà per arricchirsi (le case farmaceutiche), altri per cercare di diventare famoso parlandone al mondo, altri ancora tenteranno semplicemente di sopravvivere.
Realismo e metodo quindi: elementi che ho apprezzato.
Persone comuni al centro della narrazione, che siano burocrati dalla vista corta, medici in prima linea o semplici padri di famiglia. Anche questo l'ho apprezzato.
Niente macchiette, niente pulp, niente patriottismo svenduto un tot al chilo. Il film è questo, piaccia o non piaccia.

C'è anche un blogger tra i protagonisti. Un blogger complottista interpretato dal bravo Jude Law, perfetto nel ruolo. Soderbergh è dunque bravo a intuire e a mettere in campo la potenza mediatica dei blog, specialmente quelli che si occupano di questioni sociali e di complottismo. È il caso de “Il siero della verità”, il sito gestito da Alan Krumwiede (Law, appunto). Blogger con un notevole seguito di lettori che dapprima lotta per far emergere la verità sul virus e poi cede alla tentazione di sfruttare il tutto per fare soldi, sponsorizzando un'inutile cura omeopatica che da quel momento in poi andrà a ruba.
Krumwiede è uno dei personaggi più riusciti di Contagion, anche perché rimane ambiguo fino in fondo, a metà tra la tentazione di credere alle sue stesse storie cospirazioniste e la volontà di arricchirsi grazie a esse.

Ma tutto il cast di Contagion è di prim'ordine: Gwyneth Paltrow, destinata a una fine miserevole (e anche “aperta” su un tavolo d'autopsie... una scena particolarmente forte), Matt Damon come sempre ottimo, Kate Winslet, Laurence Fishburne bolso e baffuto, lontano dallo spettro di Morfeo, per fortuna.
Il bello, se così si può dire, è che Soderbergh non tituba nel far morire questo o quel personaggio, quando necessario. Anche se si tratta di un pezzo da novanta, anche se apparentemente sembrava il classico salvatore della patria a Stelle e Strisce. Questo stupisce in positivo e ci allontana dalle pellicole a la Armageddon.

Una regia precisa, nitida, pulita al punto di essere algida. Idem per la fotografia. L'Apocalisse che avanza non ha – non sempre almeno – i colori malati del sangue e della cenere, bensì il bianco del disinfettante usato ovunque, il linoleum dei tavoli medici, il grigio-azzurro dei grattacieli in cui il virus serpeggia.
Ci sono delle scene che fanno più paura di decine d'inseguimenti di zombie e affini: aeroporti deserti, tavole calde aperte ma vuote, sale mortuarie coi funerali lasciati a metà, scuole evacuate e chiuse, palazzi di multinazionali popolati soltanto dai terminali lasciati accesi.
Il mondo senza di noi, almeno finché qualcuno trova il vaccino.

Perché Contagion ha una specie di lieto fine. Questo a qualcuno non piacerà ma, di nuovo, Soderbergh ha puntato su un certo realismo scientifico. Improbabile che la razza umana possa venir spazzata via da una pandemia. Probabile invece che una pandemia come quella narrata sia in grado di sconvolgere gli equilibri socio-economici del mondo, come successe per la peste, come rischiò di succedere con la Spagnola.
Ma non si tratta di un happy end lagnoso. È semplicemente una fine, positiva quanto basta (siamo sopravvissuti), ma con un grosso monito per tutti: potrebbe accadere di nuovo, anzi, è probabile che accada di nuovo.

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