Dialogo improbabile con Carmelo Bene sulla scrittura di scena di Gianni Cuomo

È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete. Voi sputate su Einstein, voi sputate sul miglior Freud, sull'aldilà dei principi di piacere; voi impugnate e applaudite l'ovvio, ne avete fatto una minchia di questo ovvio, in cambio della vostra. Ma io non vi sfido: non vi vedo!1

…Carmelo si sa che il linguaggio rappresenta un piccolo trauma, una forzatura nell’esposizione del proprio essere attraverso la parola che spesso ci raggira, ci illude, ci fotte come dici tu, ma il linguaggio è uno strumento indispensabile alla comunicazione verbale, tu stesso lo utilizzi per esprimere la tua posizione…

[...] Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti. "Codesto solo – dice l'Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". E questo si può dire. Chi dice d'esserci è coglione due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: "il significato è un sasso in bocca al significante". Qualcuno ha da obiettare questa definizione? La obietti con i lacaniani, la obietti con Lacan, la obietti con intelligenza, certamente! Ma per me l'intelligenza è miseria.1

… perché l’intelligenza è miseria? Sarei più d’accordo se definissi miseria l’ignoranza. Non è forse quest’ultima causa delle più nefaste bassezze umane?

Tu prendi a calci nel culo la tua intelligenza, ma ti rendi conto che sei artefice di una visione innovativa nella storia del teatro?

Tu hai edificato la tua autodistruzione per ri-costruirti nel teatro appunto dove demolendo te stesso hai costruito un palcoscenico nuovo, in cui non trovano più collocazione noiosi recitanti di una commedia recitata a memoria, ma la realtà dell’essere nel teatro, nel luogo del grande teatro.

Il teatro, il grande teatro è un non-luogo soprattutto, quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell'etimo (da marthyr), per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò di cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro. Ecco che l'attore non basta più, il grande attore nemmeno. Bisogna essere una macchina, eh..., come io (tra parentesi) l'ho definita, attoriale. Che cos'è una macchina attoriale?... Comunque deve essere amplificata... L'amplificazione è un strana cosa... L'amplificazione non è assolutamente [...] un ingrandimento, ma è come guardare questa pagina... Se io la guardo in questo modo, ecco, così, ecco... io vedo e così sento; ma se io avvicino questo [foglio], più l'avvicino, più i contorni svaniscono. I contorni svaniscono e non vedo più un bel niente.2

…dal tuo punto di vista bisogna quindi essere una sorta di episcopio sensoriale sul palcoscenico, ma questo lo sai bene che non è stato capito dalla gran parte della “critica” che non ha certo fatto complimenti nel bistrattarti ferocemente.

Ciò che dici è estremizzazione artistica soggetta ad una potenziale e facile non comprensione. Ma in fondo chissenefrega dell’altrui comprensione, tu stesso hai affermato che l’arte deve solo essere incomunicabile,  come lo sono state espressioni artistiche che in passato hanno spalancato porte al nuovo pur non essendo state subito comprese, e secondo me tu rappresenti la continuazione di questo…

Credo di continuare un discorso laddove anche Antonin Artaud fallì. Io ho ripreso il discorso di Artaud, cioè quello della scrittura di scena, contro il testo; un testo, un teatro di testo, diceva Antonin Artaud, è un teatro di invertiti, di droghieri, di imbecilli, di finocchi; in una parola di Occidentali. [...] Dopo secoli, quattro secoli (già però ventilata in Shakespeare ed in tutto il teatro elisabettiano) [...] ecco finalmente la scrittura di scena. Una volta il testo veniva, viene tuttora, ahimè, in Occidente riferito; si impara a memoria; cioè è un teatro del detto, del già detto, ... e non del dire, che sconfessa il detto e si sconfessa anche in quanto dire. Si tende delle trappole il dire al dire stesso. Non è mai un dire del medesimo, comunque. Quindi la scrittura di scena è tutto quanto non è il testo a monte, è il testo sulla scena. Quindi, il testo ha la medesima importanza che può avere il parco lampade, la musica, un pezzo di legno, di cantinella qualunque, un barattolo. Questo è il testo nella scrittura di scena. Chiaramente affidata alla superbia dell'attore, dell'attore in quanto soggetto, non più dell'attore in quanto Io, cioè in quanto immedesimazione in un ruolo.3

… Carmelo se dici che la scrittura di scena è tutto quello che non è un testo a monte, che senso ha scrivere un testo teatrale?

Si potrebbe a questo punto “recitare” tutto, compreso una lista della spesa, ma su questo ci ritorneremo.

Piuttosto spiegami: nel tuo “Pinocchio” identico a quello di Collodi, ma diverso nella sua esposizione, dove tu anziché rappresentare il burattino, lo elimini inventando un nuovo personaggio più vicino alla metafora del destino dell’esistenza umana, perché hai scelto di sottolineare l’effimera condizione della vita umana, anziché la visione fantastica del burattino-non-umano?

È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l'incubo di un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell'umano – che parola schifosa – questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un'accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano.5

…già l’imperfezione umana… è forse anche la tua phoné una imperfezione di una dialettica del pensiero?

Se qualcuno ha potuto definire la phonè una dialettica del pensiero, nego di aver qualcosa a che fare con la phonè. Io cerco il vuoto, che è la fine di ogni arte, di ogni storia, di ogni mondo.6

 

1 “Uno contro tutti", in Maurizio Costanzo Show, 28 giugno 1994

2 Definizione di macchina attoriale – video su You Tube a cura di Pietro Ruspoli & Tonino del Colle

3 Sulla "scrittura di scena", Carmelo Bene a Mixer Cultura, 1987

4 Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro (pag. 124) 2006

5 ”Fatemi il funerale da vivo” L’Espresso 13 gennaio 2000

6 Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro (pagg. 131-132) 2006

 

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