Se esistesse un nobel per la fotografia, Steve McCurry l'avrebbe probabilmente in bella vista sulla mensola. Tecnicamente, una sorta di equivalente è già nel suo palmares artistico, ripetutamente rimpinguito con i World Press Photo Awards. Ma forse, per un fotografo da trincea - invero, pressoché ogni buon fotografo dovrebbe essere da trincea - l'autentico trofeo è la fotografia stessa, il singolo scatto strappato sulla cima unta di sudore del polpastrello, come fosse il crinale di uno sguardo arrischiato. Ed allora, il curriculum di McCurry si legge come una cartina geografica sinistramente simile ad un Risiko, di guerre di Stati o di poveri: dal Beirut alla Cambogia, dal Kuwait all’ex Jugoslavia. E per il Gotha delle riviste: Time, Life, Newsweek, Geo e National Geographic. Per quest'ultima, il fotografo è l’autore del noto reportage sulla ragazza assurta ad icona del conflitto afghano.
Parte informativa, mi tocca: dal 3 dicembre 2011 al 29 aprile 2012, Steve McCurry espone a Roma con una grande mostra al Museo d'Arte Contemporanea di Roma, negli spazi espositivi della Pelanda al MACRO Testaccio. Fabio Novembre ha optato per un allestimento nè cronologico nè geografico, piuttosto calibrato sull'assonanza di soggetti, annodando luoghi e persone diverse nel filo comune dell'immagine. Nella presentazione della mostra, sul website del Museo, si legge: "L’allestimento è pensato come un villaggio nomade con una serie di volumi che si compenetrano tra loro per restituire quel senso di umanità che si respira nelle foto di McCurry".
In fin dei conti, delle fotografie ben riuscite, per ogni interprete, si dice frequentemente della capacità di "restituire il senso di umanità". McCurry opera però consapevolmente in questo senso, con una sorta di genesi artigiana dell'immagine, laddove la tessitura paziente non è nello sviluppo materiale, ma nell'attesa: "Ho imparato a essere paziente. Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te" - dichiara l'autore. Questa è una confessione che mi colpisce considerevolmente. McCurry versione ghostbuster: non è un ritrattista cercatore di rughe o di piaghe, ma un accalappia-anime. Al limite, le rughe sono quelle di dentro.
Ciò sottintende un romanticismo di fondo, probabilmente comune ad ogni fotografia che si protenda ad un conato così acuto di afferrare l'essenza del soggetto. Viene in mente una frase di un critico cinematografico, oserei dire "d'assalto", un po' come certa fotografia di McCurry: Enzo Ungari. Come tutti gli "scomparsi prematuramente", per fortuna non fu prematuro a sufficienza da lasciare il solo silenzio. Il rimpianto sul "cosa avrebbe potuto fare" è pareggiato dalla fertilità delle parole rimaste, quelle si, spese in tempo. E tra queste, è memorabile la definizione del mangiatore di film, come si definiva, da cui estrapolerei questo brano che si ha buon gioco di accostare a McCurry, pensandolo, invece, come un mangiatore di immagini: "Il mangiatore di film è spaventosamente romantico, irrimediabilmente portato cioè a capire la realtà. Quel che egli cerca nel buio non è la fuga da quest’ultima, ma la sua stessa essenza, qualche volta così concentrata da essere insostenibile come un veleno. Ha capito il mondo così come, per capire un pezzo di pane, non lo si pensa, ma lo si mangia". La figura dello chef e quella del consumatore si sovrappongono in McCurry, laddove il cinefilo di Ungari mangia il già pronto, mentre il fotografo lo confeziona: li accomuna, però, il talento di guardare, fuori dai professionismi. Sono quelle metamorfosi di cui è consapevole il frequentatore dei luoghi spirituali dell'arte. L'intersezione tra critico ed artista, quella tra vita ed arte.
C'è un altro aspetto peculiare dell'opera di McCurry, sul quale non mi tratterrei se non fosse a propria volta romantico; e così romantico, da indurmi, perfino, ad cenno a Delacroix. McCurry è un viaggiatore non solo per necessità di lavoro, ma per necessità interiore: una sorta di "malattia del viaggio", un ritemprarsi della vita nella sua mutevolezza di forme e sapori visivi girando per il globo: "Perché già il solo viaggiare e approfondire la conoscenza di culture diverse, mi procura gioia e mi dà una carica inesauribile". Quando Eugéne Delacroix giunge ad Algeri, la mattina del 25 giugno 1832, dopo le tappe di Cadice e Siviglia, la prima notazione che riporta il suo Diario è: "Sceso a terra verso le 11... Strade strette che si congiungono... Alla Casbah. Ingresso buio, porta dipinta, fontana (schizzo)... All'interno, tetti alla turca (schizzo)". Il mangiatore di immagini Delacroix subisce l'impressione retinica dello spettacolo delle forme. Angustia, buio, tipologia dei tetti: dimensione, luce, forma.
Quello di Delacroix è dunque un occhio fotografico, l'occhio del "talento di guardare", ed ancora un aspetto lo accomuna a McCurry: prima di dipingere le famose Donne di Algeri, la gestazione è paziente come l'attesa fotografica. Secondo il racconto di Charles Cornault - esecutore testamentario di Delacroix - sarebbe stato l'ingegnere del porto di Algeri, Victor Poirel, a mettere in contatto Delacroix con un personaggio locale, un collaboratore dell'amministrazione francese, che segretamente lo invitò nel proprio harem, tradizionalmente chiuso allo straniero. Il pittore ne trasse diversi schizzi ad acquerello, solo parte dei numerosi studi - nella stessa tecnica, o a pastello - svolti in questi mesi: sette carnets ed un'infnità di fogli sparsi che segnano una sorta di metabolizzazione visiva dell'Oriente. C'è una differenza importante, però, rispetto a McCurry: quel metabolismo sembrava pretendere cibi esotici. Dipinti come la Caccia alla tigre (1854) o la Caccia ai leoni (1855), sia pure nella varietà delle motivazioni che confluiscono nella creazione - l'omaggio a Rubens, l'edonismo pittorico, l'influenza dello scultore Antoine Louis Barye, il progressivo successo commerciale - denunciano una diversa voracità dello sguardo del romantico rispetto al fotografo: uno stupore "eccitato" dalla diversità, che prenda l'ego oltre che la realtà, piuttosto che l'afflato di assecondare una realtà sempre mutevole con l'onesta parzialità della foto.
Fotografia, cinema, pittura: sono tanti i modi di essere "mangiatori di immagini". In fin dei conti, si mangia la realtà.
Antonio Maiorino