Canaletto e Duchamp? Con il Selfie sono stati superati da uno smartphone.

 

Anche National Gallery si è arresa.

Il selfie con le opere d'arte sullo sfondo è liberalizzato.

Al MAXXI di Roma, firmando un modulo, è possibile.

Su twitter c'è  l'hashtag #MuseumSelfie.

Sempre più  i musei che hanno un account su Instagram.

La didattica dell'arte contemporanea è i suoi linguaggi sono in permanente mutazione? Si tratta di evoluzione?

Canaletto e Duchamp? Con il Selfie sono stati superati da uno smartphone.

 

Abbiamo su ragionato su questa piattaforma di come stia cambiando il sistema museale italico con la "liberalizzazione del selfie" voluta dal governo Renzi.

 Il mercato delle applicazioni e dei social network colonizza spazi e invade non solo l'Italia, ma anche la capitale del mercato dell'arte contemporanea, Londra, la National Gallery sul modello Renziano degli Uffizi, si inchina al modello globale del Selfie con connesso photobomb; la presa d'atto è che oramai è impossibile controllare lo scatto e che il suo mercato, nella logica virale della circolarità dell'immagine digitale, attraverso la vita del visitatore, alimenti il flusso dello spettatore-visitatore globale.

Dopo il Louvre di Parigi, il Moma di New York, i musei Italiani sull'asse controriformista Renzi - Franceschini, anche la National Gallery si inchina al mercato delle applicazioni.

In Inghilterra, come in Italia, il dibattito tra apocalittici e integrati del nuovo globo interconnesso per mezzo di social network e applicazioni è fitto.

Qualcuno sostiene che il Selfie può favorire una didattica dell'apprendimento e della trasmissione dei contenuti del pezzo fotografato in tempi dilatati, rispetto al passaggio a tempo dinanzi all'opera statica e immobile; qualcun'altro come da noi, teme la dissacrazione del linguaggio dell'arte, Michael Savage, un blogger che si definisce "storico dell'arte scontroso", narra "la fine dell'ultimo bastione della quiete contemplazione".

Sam Cornish, dal sito Abstract Critical nota con cognizione di causa: "La cosa più grave è la cultura del "non guardare" che le macchine fotografiche promuovono".

Lo scrittore Sam Leith, sull'Evening Standard, è  invece entusiasta e nei toni iconoclasti è vicinissimo al nostro Renzi:

"L'idea che il nostro incontro con un'opera d'arte in un museo sia un confronto diretto fra una coscienza riconoscente e una luminosa singolarità artistica è pura fantasia".  Ci ricorda che quelle opere hanno anche un valore di mercato e difende proprio come un qualsiasi adolescente 2.0 il  proprio selfie:

"Un'ampia parte del piacere che proviamo nel trovarci davanti a un capolavoro è proprio dovuta al fatto di essere lì, poter poi dire: Io ci sono stato".

Sulla scia dell'intenso dibattito (che in Italia è mancato completamente, ma che la nostra nazione non abbia l'abitudine e l'interesse a coltivare la palestra dei linguaggi dell'arte in divenire è un fatto),  la giornalista  del Guardian Zoe Williams,  nel bel mezzo della National Gallery ha eseguito tre selfie:

uno con un ritratto di donna che suona la spinetta di Vermeer ; con l'autoritratto seicentesco di Salvator Rosa e con un Rembrandt sessantenne.

"Il selfie originale", ha definito l'autoritratto di Rembrandt,  nell'esperienza ha raccolto qualche commento negativo di altri visitatori,  imbarazzo e una certezza:

"Nessun timore, il museo non sarà travolto da una massa di gente che fa selfie".

Potrebbe essere vero a Londra, dove questi argomenti sono d'interesse nazionale, ma in Italia?

A proposito, una riflessione:

Il selfie cosa sta diventando nell'immaginario collettivo del viaggiatore?

Qualcosa a metà, tra il vedutismo di genere settecentesco con relativi "capricci", una cartolina a riproduzione digitale e dimensione turista e la blasfemia iconoclasta Dada. 

Insomma, forse dove hanno fallito Canaletto e Duchamp, sta riuscendo una applicazione accompagnata da uno smartphone?

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Mimmo Di Caterino

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