Leggendo l'autobiografia dell'artista giapponese Yayoi Kusama, "Infinity net", mi ritrovo a pensare, che le artiste che dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi, sono maggiormente celebrate e riconosciute dal sistema dell'arte, nel nome anche di una condizione d'emancipazione femminile raggiunta (?) e nella loro rivendicazione identitaria; nella pratica, hanno forse celebrato il loro corpo offrendolo votivamente allo spettatore.
Hanno fatto e si sono sottoposte a ricognizioni topografiche e planimetrie accurate della loro vulva e di quelle altrui e hanno beatificato e glorificato il totem-fallo, nella nome di un nobile percorso arteterapeutico verso l'emancipazione delle loro condizione.
Forse sono un bigotto mediterraneo puro (?) e puritano, ma a suggestioni anni settanta concluse e annientate dalla civiltà dell'immagine, dalla logica del selfie bidimensionale imperante, mi viene da pensare che abbiano fallito, che siano delle amazzoni sconfitte che hanno consegnato il loro corpo e la loro individualità all'effimero successo individuale e personale e che in nulla hanno mutato la condizione che sognavano di modificare.
Restano simboli e icone globali, ma forse di un fallimento glorificato, neanche troppo annunciato.
Penso alla figura dell'artista donna prima dello spartiacque del secondo conflitto globale e dopo la "rivoluzione" degli anni sessanta, quanto l'ostentazione del corpo è andata di pari passo con la mercificazione dello stesso e a questo si è associata l'identità?
Nello stesso governo Renzi in cosa cambia la condizione della donna se non come numero-vessillo da ostentare?
Penso a Maria Lai, artista sarda come a una eccezione, questo è quello su cui sto ragionando, tutto inquadrato in un campo di ragionamento più ampio dove il bluff del valore di mercato erroneamente valorizza il "merito" di un artista...
Penso anche al secolo scorso e alla fine dell'ottocento, a Frida Khalo, alle donne futuriste, a Camille Claudel, a Berthe Morisot e Mary Cassat ad esempio..., a tempi e spazi dove il confronto tra i due sessi in arte era fatto di linguaggio e contenuto e non da dettami della condizione del codice binario in compenetrazione optical fallo-vulva.
Il tutto nel dopoguerra si è manifestato in una maniera nebulosa, la ricerca artistica al femminile (e forse anche al maschile in certi "generi" di linguaggio) aveva come unica distinzione di percorso dall'arteterapia, l'ambiente sociale e culturale all'interno del quale l'artista si collocava.
Penso ancora a quante monografie di artiste dagli anni sessanta ad oggi, sembrano quasi concepite con il copia e incolla, la donna che sfugge ai limiti dell'educazione subita in casa, che ha rapporti conflittuali con il sesso- pene che riproduce a scopo terapeutico e che mostra fieramente la vulva e esorcizza il totem fallo.
"Le donne artiste prima della Body art erano succubi di linguaggi maschili", mi si dirà, vero.
Camille Cloudel poi ne ha subito pure l'annullamento da parte dello stesso Rodin, nei confronti del suo lavoro, al punto da impazzire; ma anche Vincenzo Gemito, scultore come lei, si è autoannullato egualmente, entrambi vittime dell'ego maschile, subito o autoimposto?
Sono convinto che oggi come allora esistono donne determinate a fare un cambiamento, oggi più di allora esistono artiste coraggiose con percorsi di ricerca e contenuto, penso a mia moglie, Santabarbara Ardau, compagna di arte e di vita e alle numerose artiste che con entusiasmo partecipano al progetto T.A.M.
Per questo suggerisco uno sguardo verso punti di fuga diversi e fuori dai media specializzati e di massa.
La storia delle donne è forse il retro, il non visto della storia, anche se ragioniamo su donne artiste in mostra che si mostrano e vengono mostrate per quanto costa il loro lavoro?