Piero Fogliati, ovvero, La rivelazione fantastica della luce. Parte I | Alessandro Trabucco

piero fogliati - alessandro trabucco rubrica less is more n.10

 

Piero Fogliati, ovvero, La rivelazione fantastica della luce. Parte I

di Alessandro Trabucco

 

 

 

 

Prologo

 

Nella casa dei miei, in un paese di campagna della provincia di Cremona, il Sole sorge proprio di fronte. Nei sereni e tiepidi giorni primaverili, al mattino presto, quando apri la porta, sono i suoi accecanti raggi a darti il buongiorno. Lo puoi seguire mentre si alza lentamente nel cielo, perché di fronte casa ci sono ampi prati verdi, che in estate diventano estensioni interminabili di granturco.

Anni fa, per una sorta di meccanica abitudine, ogni mattina soleggiata osservavo dallo spioncino questo mirabile evento, cercando però di non bruciarmi la retina...

Un sottile raggio luminoso entrava in casa attraverso quella piccola “wide angle lens" ed andava ad infrangersi nella parete con le piastrelle della cucina. Un filo di luce sospeso nell’aria.

All’epoca dipingevo e un giorno pensai che avrei dovuto abbandonare la pittura ed andare alla ricerca di qualcosa di più evanescente ed immateriale. Era stato quel filo luminoso ad avermi messo in testa questa idea, dovevo catturare la luce naturale e trasformarla in espressione estetica. Ma non ci riuscii mai, l’idea superava di gran lunga la tecnica, e quindi rimase tale.

 

Let there be light

 

Ancora non sapevo (parlo della metà degli anni Novanta) che in America, nel sud della California, c’era stato un gruppo artistico denominato Light and Space (con James Turrel, Robert Irwin, Maria Nordman, Doug Wheeler e altri) che una trentina di anni prima aveva messo in pratica questa idea di immaterialità, e nemmeno conoscevo le ricerche di Anthony McCall sui fasci luminosi del proiettore cinematografico, tanto meno ero a conoscenza dell’esistenza della complessa opera di un grande artista piemontese, Piero Fogliati, alla ricerca dell’essenza e del mistero dell’Arte e portata avanti con instancabile dedizione nell’isolamento del proprio studio a Torino.

Diciamo che un giorno ho avuto la fortuna di trovarmi, come si suol dire, nel posto giusto al momento giusto e quel prezioso momento ha cambiato completamente la mia percezione e concezione dell’Arte. E’ accaduto nel maggio del 1996 all’Accademia di Brera, un convegno dedicato all’Arte/Scienza, con le aule temporaneamente trasformate in spazi espositivi. C’erano tra gli altri Silvio Wolf e Studio Azzurro, e anche Piero Fogliati. Entrando nell’aula che esponeva la sua opera capolavoro Edicola delle Apparizioni (1985), all’inizio ho visto solo dei lampi improvvisi, e il passaggio dalla luce esterna al buio totale interno ha determinato una sorta di temporanea cecità dovuta al naturale adattamento dell’occhio. Non sono nemmeno riuscito a distinguere il volto dell’artista, ho solo potuto ascoltare la spiegazione del suo lavoro e rimanerne profondamente affascinato. Era quello che io volevo ottenere partendo da quel filamento luminoso del Sole attraverso lo spioncino della porta di casa. Con quella opera, Fogliati aveva detto già tutto ciò che avrei voluto esprimere io, e con molti anni d’anticipo.

Fu naturale conseguenza la volontà di studiare il suo intero percorso creativo scoprendo che questa sua ricerca sull’immaterialità pura era iniziata proprio negli anni Sessanta, lo stesso periodo di Light and Space.

Iniziai quindi un’intensa frequentazione del suo studio, due anni e mezzo di viaggi tutti i sabati nessuno escluso, d’estate e d’inverno, con la pioggia, la neve o col sole. Ne è nato un saggio abbastanza completo sul suo lavoro, il primo mai scritto in 40 anni di attività, testo che è diventato la mia Tesi di Laurea all’Accademia di Brera discussa nel febbraio del 1999.

Ma cosa ha di così speciale l’Edicola delle Apparizioni?

L’idea che ha mosso Fogliati verso questo importante risultato era soprattutto rivolta alla sostituzione del processo percettivo dell’opera, procedimento che doveva svincolarsi da supporti fisici e tramutarsi in pura immaterialità.

Gli studi approfonditi sulla meccanica di precisione, sull’ottica e sulla percezione visiva hanno determinato un percorso creativo straordinariamente emozionante, sino alla realizzazione della prima vera opera di luce pura, avvenuta nel 1970, l’Aura Cromatica.

 

Con questa opera Fogliati riesce ad ottenere un esito immateriale, sospeso nel vuoto e potenzialmente inesistente senza una persona che lo osservi. E’ questa la più grande conquista della ricerca dell’artista, una sorta di compartecipazione dell’evento luminoso, che si attiva solo nel momento in cui viene osservato.

L’esempio che riporto solitamente, come confronto e chiave di lettura per spiegare questo particolare fenomeno visivo, è quello di un normale schermo video collocato in uno spazio espositivo sul quale sono proiettate delle immagini: pensando l’ambiente vuoto, la successione delle immagini avviene regolarmente anche senza alcuna presenza ad osservarle, come una sala cinematografica senza alcun spettatore. È possibile, infatti, immaginare che un video possa svolgersi anche senza che ci sia qualcuno presente a guardarlo, avendo così una vita indipendente dal fruitore. Le opere di Fogliati, che si basano sul “principio percettivo autonomo”, invece non si realizzano senza che nessuno le percepisca. Verosimilmente non possiamo immaginare che queste opere avvengano lo stesso quando non ci sia nessuno ad osservarle, ma solo nel momento in cui vengono percepite dallo sguardo e dalla mente di qualcuno.

L’artista proietta immagini o successioni cromatiche e la loro fruizione viene determinata esclusivamente dall’osservazione diretta e dai veloci movimenti inconsapevoli ed incontrollati dell’occhio umano, chiamati scientificamente movimenti saccadici.

Questi rapidissimi movimenti fanno sì che l’occhio catturi per una frazione di secondo le immagini o le successioni cromatiche che l’artista ha predisposto nei propri proiettori luminosi e che rivolge verso delle esili bacchette bianche sospese nel vuoto. L’unidimensionalità della bacchetta (la lunghezza) costringe l’occhio umano a tirar fuori la seconda dimensione mancante ma potenziale ed esistente, e fa sì che venga percepita nel vuoto, sempre per una frazione di secondo. In pratica, l’apparizione di lettere, immagini e bande colorate avviene solo grazie alla simultaneità della proiezione e della percezione.

Sono esattamente i “flash” che vidi entrando nell’aula di Brera con l’Edicola delle Apparizioni, lampi che riproducevano lettere e numeri nel vuoto, visibili senza un supporto bidimensionale che li riflettesse. Un risultato che ha permesso a Fogliati di creare opere di luce pura, fisicamente immateriali e percepite senza un completo controllo dello sguardo e della mente.

Questa ricerca si è sviluppata grazie ad un grande progetto, l’utopica Città Fantastica, che l’artista voleva realizzare con interventi sul territorio urbano, in modo da modificarne la struttura per mezzo della manipolazione diretta degli eventi atmosferici (l’aria, l’acqua, la luce solare, il suono del traffico) un ambiente non più concepito soltanto come spazio della “sopravvivenza”, ma anche composto da una realtà a parte, nella quale lo spettatore era veramente compartecipe alla sua realizzazione. Se Fogliati fosse vissuto nel Rinascimento, quando mecenati e politici la leggevano la Divina Commedia invece di incartarsi i panini con le sue pagine come fanno oggi, forse questo grande sogno sarebbe stato concretizzato, ma negli anni Sessanta, in Italia, si trovò di fronte enormi difficoltà nel proporre le proprie idee rivoluzionarie, in un quadro storico dominato e monopolizzato da tendenze artistiche formalmente e concettualmente opposte. Persino la corrente dell’arte cinetica, contemporanea alle prime realizzazioni di Fogliati sul moto, sul suono e sulla luce, proponeva esiti che egli rifiutava nettamente, come la ripetizione continua dello stesso movimento e un utilizzo percettivamente “statico” della luce.

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