Un’opera maestosa, un morbido abbraccio di luce che avvolge ambienti dai colori caldi, intensi, al limite dell’immaginazione. L’oro e il dorato è onnipresente negli interni, nei particolari delle tele, nelle ceramiche che raffigurano vasi e animali sacri. Spicca la purezza dei guerrieri d’amore, che imbracciano gigli e fiori di loto sugli arazzi e nei dipinti. E ancora geometrie sacre nei tappeti della meditazione, vasi di ogni misura e materiale, dal bronzo all’oro, sovente giganteschi, di ogni tipo e decorazione, che formano spesso un tutt’uno con tavoli o librerie. Vasi che nella simbologia universale rappresentano la ricettività della creatività dalle forze creatrici del cosmo. E’ questa solo una piccola parte dell’opera creata da Tarshito, architetto e artista contemporaneo originario di Corato in provincia di Bari che è riuscito a realizzare una magnifica compenetrazione tra architettura, design e arte contemporanea, in un particolare sincretismo artistico tra i principi della filosofia e spiritualità orientale e la creatività più esuberante e solare. Allievo di Osho, Nicola Strippoli arricchisce il suo percorso professionale iniziato come architetto, del quid creativo che lo porta a divenire, dopo diversi viaggi in India soprattutto e dopo esperienze di meditazione e incontro con le culture orientali uno degli artisti pugliesi più originali del panorama contemporaneo, che coniuga sapientemente i linguaggi dell’architettura e del design, ma esprimendosi adeguatamente anche nei campi della pittura, scultura, arte tessile avvalendosi spesso di collaborazioni con artigiani pugliesi, indiani e tibetani per le sue creazioni. Numerose le personali in India e nel territorio nazionale italiano, da Roma a Milano, alla Biennale di Venezia (ha partecipato alla Biennale di Venezia nel 2011 per il Padiglione Italia nel mondo in India e nel Padiglione in Puglia). In particolare la mostra “The Gold and the Clay” del 2001 al Crafts Museum di New Delhi curate da Daniela Bezzi e da Jyotindra Jain assume un ruolo di rilievo nel percorso artistico di Tarshito, nel pieno della sua creatività e collaborazione con artigiani del luogo.
Tarshito ha accolto, con grande gentilezza e ospitalità la cronista di Lobodilattice nel suo villaggio-laboratorio artistico di Mungivacca, alle porte di Bari, per realizzare quest’intervista-dialogo – inserita nella rubrica “Focus on artist” - che ha toccato i punti principali del suo percorso creativo.
Tarshito: da architetto ad artista. Com’è nata la scintilla creativa che ti ha portato a proseguire il percorso di architetto che avevi scelto arricchendolo della valenza artistica? Ci puoi parlare del tuo viaggio in India dopo la Laurea in Architettura? Ho letto che il tuo percorso artistico è iniziato dopo questa esperienza.
Mi piacerebbe aprire questo nostro incontro con un ringraziamento alla casualità che ci ha fatto incontrare. Penso che ogni nuovo incontro possa avere una grande potenzialità di trasformare se stessi e, in questa trasformazione c’è la anche la possibilità di trasformare chi legge o chi guarda o chi ti è vicino. Evviva questa possibilità di nuovo incontro, di nuovo respiro. Io chiedo e sono disponibile affinchè le parole che condividerò con te e con chi ci legge o guarda possano essere parole di semplicità e parole attraverso le quali si possa aumentare la portata d’amore in ognuno di noi e possano aumentare la pace nel cuore. Ecco, aprirei così e poi la domanda: da architetto ad artista. Architettura, madre delle arti. Mai avrei potuto immaginare però che si potesse verificare questa trasformazione da architetto ad artista. Mi è sembrata una possibilità quando ero immerso nella creatività totale: questo lo devo sicuramente, come base, agli studi fatti in Architettura a Firenze, e anche molto alla mia tesi di Laurea. Questa tesi di Laurea mi ha avvicinato molto al senso, all’essenza della creatività. Una tesi sul teatro di strada ma soprattutto fatta con il professor Gianni Pettena che era uno dei pilastri, uno dei padri, uno dei fondamentali maestri dell’architettura radicale. E’ stata questa una delle possibilità di vedere l’architettura in modo molto ampio, guardandola dalle sue radici più profonde a quelle eteree, filosofiche, che si librano verso il cielo. Questa è stata una possibilità di entrata o comunque di primo incontro con l’arte. Il secondo grande punto che mi ha fatto allargare il campo dall’architettura all’arte è stata la visita a una Biennale di Venezia alla fine degli anni ’70, “La Strada Novissima” dov’è stato presentato il postmodernismo. Ecco, lì si è verificata per la prima volta la contaminazione tra architettura, arte e design: vi era un insieme di questi tre grandi temi per tentare di raggiungere un’unità. Terzo punto, sempre in questo passaggio o allargamento dall’architettura e all’essere artista è stato l’incontro con un maestro, guru negli anni ’70: ho incontrato Osho Rajneesh e da lì ho cominciato a lavorare sullo spazio interiore, cosa che non avevo mai fatto prima. Si dice che fosse la meditazione ma la specialità di Osho era molto precisa, era lavorare “nella” meditazione, cercare nella trascendenza. Assolutamente importante era anche il lavoro psicologico che egli indicava attraverso i vari gruppi, i vari psicologi liberandoci dai vari condizionamenti attraverso la meditazione e verso l’apertura al Mistero. Io sono entrato in questa ricerca, in questa “camminata” e subito, appena arrivato in Italia, finito il viaggio di laurea in India ho cominciato a lavorare si come architetto ma con il valore artistico, il valore creativo. Durante quei sei mesi del mio soggiorno in India di cui quattro mesi trascorsi a lavorare sullo spazio interiore attraverso la meditazione psicologia - una specie di coperchio posizionato, metaforicamente sulla mia testa, si fosse sollevato. Mi sono quindi preparato a ricevere quella che da sempre si chiama ispirazione. Ecco come l’architetto Nicola Strippoli diventa Tarshito, architetto e artista.
A chi non abbia approfondito gli studi sulla meditazione e sulle filosofie orientali, puoi spiegare come sei riuscito a trovare in senso lato il tuo “centro di gravità permanente” come dice il Maestro Franco Battiato. Come sei riuscito a trovare questo equilibrio interiore?
Sposterei un po’ il senso della domanda: non si tratta di aver trovato un centro, quello che mi riguarda è essere in cammino per incontrare il proprio centro. Mi piace molto questa immagine di mobilità, di Seeking di cercare la luce, cercare il centro, cercare il silenzio, cercare la celebrazione, cercare il “si” dentro di noi, cercare il “grazie” o la gratitudine. Mi affascina molto questo obbiettivo nella vita, questo movimento, per cui non è un “aver trovato” ma un “andare verso”: ecco è un movimento fatto di tante cose, anche della quotidianità, che può diventare meditazione. Non c’è bisogno, almeno per me, di grandi imprese ma giusto di quello che ti serve per sentirti in vita e in oserei dire “devozione”. Devozione significa un cuore pieno d’amore per un mistero che è questo spazio da cui noi veniamo. Questo movimento verso il centro mi fa sentire molto fresco, molto in entusiasmo.
Il tuo nome Tarshito ti è stato dato da Osho. Tarshito significa spirito pieno di luce se non erro..
Swami Deva Tarshito è il mio nome completo che significa “ricercatore della propria divinità”, cercare la luce. Il Divino, al di là di ogni religione, è luce piena, ampiezza assoluta, grande respiro, il significato è questo. Osho mi ha dato questa rinascita con la possibilità di volere una maggiore consapevolezza della propria vita e quindi ha fatto coincidere questa nuova partenza, questo nuovo voler cominciare a camminare in maniera sveglia con un nuovo nome Swami Deva Tarshito. Questo nome continua ad accompagnarmi perché continua dentro di me questa sete di conoscere il mio spazio interiore come uno specchio del grande spazio esterno a me.
Qual è, a tuo avviso, il confine tra arte e artigianato, come tu concepisci questa compenetrazione dato che spesso ti avvali, nella tua opera, di collaborazioni con artigiani pugliesi e tibetani?
Le domande in effetti sono due, quando ti riferisci alle mie collaborazioni con varie persone in vari luoghi del mondo, ecco, vorrei spendere qualche parola su questo perchè per me è molto importante “lavorare con”, lavorare “With”.
Qui il ruolo dell’artista si fa molto più forte in quanto c’è più di una creatura in gioco, come il canto di un coro. Tutto questo m’interessa molto, infatti cerco delle creature che abbiano doni, ad esempio la tecnica della doratura, la tradizione delle ceramiche e delle pitture in vari luoghi del mondo, soprattutto chiaramente in Puglia dove vivo e in Oriente che frequento molto, in particolare i territori dell’India, il Nepal, il Bangladesh, e ho lavorato anche un po’ in Tunisia, a contatto con i saperi tradizionali. Mi piace molto lavorare insieme agli altri, mi ricorda questo concetto orientale sanscrito che è l’ “essenza” e “sat-sangha” significa condividere, quindi la riunione di persone che condividono un obiettivo che hanno in comune che è l’essenza delle cose: ecco, questo m’interessa. Poi, quando mi parli di arte e artigianato, mi parli dei confini, ecco, da tempo tento di cancellare i confini, ma se dovessi zoommare sull’artigianato ho un po’ di esperienza con vari artigiani. Nel loro lavoro la ripetitività del gesto e della costruzione dei vari oggetti nel tempo ha tolto la potenza del simbolo e del rito che era dentro il manufatto. Come dire negli anni quello che era un fare come offerta al Divino perché aveva dentro di sé la simbologia - e la simbologia è una scienza che appartiene a un mondo misterico o a un mondo divino, ecco il passare del tempo ha frantumato questa tensione, ha frantumato questa propensione a tenere vivo rito e simbolo ed ecco che l’incontro con un artista, quello che io faccio, può ridare forza all’oggetto realizzato da un artigiano. Dare forza significa rinfrescarlo con una nuova simbologia o anche con la sua vecchia simbologia ma vista da altre prospettive, per cui è come un risvegliare l’oggetto attraverso le mani dell’artigiano. Questa potrebbe essere la differenza tra artigianato e l’unicità dell’arte: questa freschezza, questa connessione diretta attraverso l’ispirazione col mondo della luce. L’artigianato, invece, va avanti da anni, centinaia di anni, perdendo man mano d’intensità.
Parlando della creazione della tua opera ho notato, prima di entrare nel particolare, che ti piace molto rappresentare la forma del vaso, ci puoi spiegare il concetto che intendi esprimere in tal modo?
Il vaso - la scienza del simbolo lo dice – è l’utero, è una caverna, un cuore. Un vaso è un umano, è una creatura: il tuo collo è il collo del vaso, la tua testa è la testa del vaso aperto. Mi piace immaginare ogni creatura come un vaso, un vaso vuoto significa non pieno di ego, non pieno di supponenza, non pieno di arroganza ma vuoto, in quella umiltà da essere aperto come vaso, come creatura a ricevere informazioni celesti, a ricevere, ad essere sensibili, a captare energie, doni dall’universo. Mi piace pensare al macrocosmo, all’universo. Tu, come un vaso aperto, pulito e vuoto, ti riempi delle gioie e della straordinarietà della vita. Mi piace sottolineare la possibilità di partecipare a un progetto molto alto come quello della vita, come un vaso, come uno scrigno che conserva i tesori della vita stessa. Ecco la mia attrazione verso il vaso ma è un’attrazione condivisa nel corso dei secoli da tutta la civiltà. Sono rimasto così impressionato durante uno dei miei primissimi viaggi: ero in Turchia, in Cappadocia, dove l’arredo delle case era fatto solo con vasi, vasi piccoli che contenevano olio, oppure addirittura profumi o vasi grandi che contenevano i panni, le giacche, proprio come armadi, e ancora vasi per contenere acqua, per contenere semi e qualsiasi cosa. Ogni civiltà ha questa cultura del vaso perché il vaso rappresenta noi stessi, appartiene assolutamente ad ognuno di noi al di là delle diverse civiltà o religioni. Se pensiamo al vaso nel Cattolicesimo esso è rappresentato dal calice, che simboleggia la presenza del Signore o pensiamo al sacro Graal. In tutte le culture c’è il vaso, per cui evviva lavorare con qualcosa che appartiene a tutti quanti. Il linguaggio non diventa un linguaggio specifico di un artista ma diventa un linguaggio che tende ad essere universale.
Per quanto riguarda l’uso del cristallo, ho letto che tu ne interpreti la trasparenza, secondo la simbologia universale, come il tramite tra la terra e il cielo. Hai dichiarato che i cristalli sono “pezzi di stelle cadute sulla Terra”. E che appunto costituiscono l’intermediazione tra cielo e terra. Ci puoi spiegare questa tua passione per i cristalli?
Sai, ho incontrato i cristalli un po’ di anni fa, sono entrato in questo mondo che davvero ti toglie il fiato perché la Natura realizza questi cristalli di una bellezza straordinaria, lasciando davvero senza parole. Esteticamente sono bellissimi. In più poi, studiando il simbolismo del cristallo leggo che sono pezzi di stelle cadute sulla Terra. E allora - che bello! - come artista in maniera così semplice, come una governante o come un maggiordomo in una casa vado a mettere ordine. Prendo questi frammenti di stelle caduti sulla Terra e li rimetto in un cielo di una stanza che si chiama “volta”. Ecco gli usi che io faccio dei cristalli, semplicemente realizzo queste plafoniere, questi controsoffitti pieni o anche vuoti di cristalli retroilluminati. Ho spiegato uno degli usi che ne faccio: anche i bizantini con i mosaici avevano queste volte, questi cieli nelle stanze completamente oro, colore e materiale divino collegato al cielo e alla luce con le stelle spesso blu. Ecco io creo questi controsoffitti, queste plafoniere con foglia d’oro, con le agate oppure altri tipi di minerali. Poi c’è tutto uno studio sui minerali, sul benessere emanato dal cristallo. Uno ci può credere oppure no, ma comunque il grande fascino, la grande forza del cristallo mi piace, e mi piace che arrivi nelle case, a volte come luci, a volte come doni del muro stesso.
Infatti la tua opera s’interseca in maniera molto armoniosa, è come dire un’armonia tra design, architettura e gli altri linguaggi artistici, quindi la tua arte è fatta comunque da elementi non disgiunti tra loro. Non ci sono dei campi separati, perché la separazione anche tra i linguaggi espressivi, o tra lo spirito e il corpo sono tutti concetti occidentali, invece tu sei molto orientale anche nella metodologia del lavoro creativo.
Sai, al di là dell’ulteriore separazione tra Oriente e Occidente quello che m’interessa è proprio quello che dici, l’unità. Prima cosa sentire dentro di me, Tarshito, una persona forte, integra, unita dentro di sé – io mi visualizzo come un nocciolo, immagino una palla di luce dentro di me, i cui raggi fuoriescono da questa sfera interna, luminosa, e vanno ad incontrare altri raggi di altre sfere, di altre creature o anche delle montagne, o anche dei fiumi, o di ogni fiore, insetto, ape, formica o nuvola o goccia di pioggia, come mi piacerebbe sentirmi: in unione con le altre creature o con tutto quello che partecipa alla vita stessa
Come ti ha cambiato interiormente il contatto con una civiltà così millenaria, così importante come quella orientale, sia come persona che come artista?
Il viaggio sempre cambia, anche questo piccolo viaggio fatto tra noi in questo momento, senza consumare chilometri o altro, è un viaggio di incontro, può donarci qualcosa di gentile che possa aumentare la pace nei nostri cuori. In più ci sono stati e ci sono tanti viaggi nella mia vita: il primo viaggio in cui ho attraversato l’oceano è stato verso l’India, ma è stato molto casuale, nel senso che l’itinerario non è stato scelto da me ma da una persona con la quale viaggiavo. Da lì ho cominciato a frequentare l’Oriente, due o tre volte l’anno i primi anni per questioni spirituali, filosofiche, per capire meglio il concetto di spazio interiore. Da qui l’incontro col maestro, ma durante questi forse 20 anni di frequentazioni soprattutto in India, nell’ashram di Osho, ho cominciato a far sorgere dentro di me la gioia del lavoro sull’arte contemporanea, ma realizzato in quei luoghi dove le tradizioni erano e sono così generose, così antiche, così radicate. Dunque in questi primi 20 anni soltanto due sono state le operazioni artistiche che ho fatto, i “tappeti della meditazione”, e gli “arazzi della meditazione” dove io e Shama invitavamo artisti - soprattutto occidentali italiani e artisti che ci interessava conoscere - a darci un bozzetto per la realizzazione di tappeti non decorativi ma della meditazione. C’è tutto un background in Oriente di tappeti della meditazione, o comunque i tappeti intesi come territori in cui poter entrare e tentare di trovare il silenzio dentro di noi. Quindi nei primi anni ’80 portavo ad artisti italiani questi progetti da realizzare poi con tecnica tibetana, nel caso dei tappeti o con tecnica del kashmir nel caso degli arazzi. Ecco dunque i viaggi, viaggi che intraprendevo sicuramente per aumentare la capacità di incontrare me stesso, vedi meditazione, vedi ashram, vedi maestro ma cominciavo anche a voler lavorare in quel luogo dove avevo scoperto questa possibilità di miglioramento, di soddisfazione di me stesso. Questo fino al 2000. Dal 2000 c’è stato un grande passaggio. Osho era morto, io mancavo da qualche anno in quanto poi mi sono sposato, ho avuto i figli per cui ho viaggiato un po’ meno, sono tornato in India nell’ashram di Osho che mia aveva accolto tante volte ma non mi sentivo più tanto a mio agio: era come se avessi un po’ litigato con l’India, pensavo di non volerci più tornare ma durante lo stesso viaggio avevo un appuntamento con una giornalista, Daniela Bezzi , che si era molto innamorata di questo mondo creativo guardando e vivendo in un appartamento che io avevo realizzato a Milano. Lei viveva in India. Mi ha voluto conoscere in India. Dopo questo importante incontro con lei ho cominciato a lavorare fortemente come artista in India. Quindi, da una parte, nel 2000 uscivo dall’India o comunque dall’unico focus che era l’incontro col maestro ma vi rientravo sotto l’aspetto lavorativo con questa prima grande mostra allestita nel 2001 curata da Daniela Bezzi e da Jyotindra Jain (“The Gold and the Clay” al Crafts Museum di New Delhi n.d.r.) che era il direttore del museo in quel momento e di là si sono aperte varie possibilità di lavorare in India con varie etnie e di esporre il mio lavoro in vari luoghi, varie gallerie, musei e istituzioni. Ho continuato questo viaggio che negli ultimi anni si fa sempre più unito tra lavoro e ricerca spirituale, ponendomi a contatto con persone “tribali” o come si dice “rural people” che abitano i villaggi in cui sono caratteristiche le pitture sui muri di terra cruda: io vado spesso là, viaggio in questi luoghi, incontro queste persone per cui vengono fuori delle opere a quattro mani, ma stando lì con loro io vedo precisamente le mie sovrastrutture. E se sono consapevole delle mie sovrastrutture significa che qualcosa di gentile succede dentro di me. La consapevolezza rende più elastici e più in pace col mondo per cui questa pratica del viaggio, del camminare unisce fortemente i due aspetti di pratica materiale che si chiama lavoro e pratica interiore che si chiama meditazione attraverso lo sforzo, la preghiera e con la voglia di sentire un Tarshito unito dentro di sé e con gli altri.
Alla tua radice mistica è collegata l’importanza che tu conferisci ai materiali: prima nel tuo studio-laboratorio abbiamo visto il caucciù, il quarzo, il rame ma in particolare l’oro. L’oro come sottolinei tu stesso, si ricollega simbolicamente al concetto di luce e cielo. Ci puoi spiegare questa tuo costante riferimento all’oro, al dorato?
Subisco molto il fascino della maggior parte dei materiali: soprattutto di quelli naturali che sono già così abbondanti e straordinari. Mi piace quando realizzo un progetto – e quando dico progetto può essere un progetto architettonico o di un interno, oppure può essere il progetto di una tela o di una scultura - pensare sempre che quest’opera possa essere come un cerchio, nel senso che possa avere una parte inferiore, circolare, che mi ricorda la terra, una parte superiore circolare che mi ricorda il cielo e le due parti sempre circolari laterali-verticali che mi ricordano la connessione tra terra e cielo. Dunque per me è molto facile poter progettare, in riferimento ai materiali. L’oro di cui parlavi – e non è una mia invenzione chiaramente – fa parte del simbolismo di sempre, attraversa tutte le culture. E’ il cielo, è la parte di luce, è il Divino stesso, quindi evviva lavorare con questa materia. A volte con l’oro vero nel caso di gioielli, a volte sempre foglie d’oro vero nel caso di particolari di tele, ma ultimamente per esempio sto lavorando con la corteccia di albero che fa parte di queste curve che collegano terra e cielo, come il fusto dell’albero è fatto sia dalle sue radici terrestri, che crescono nella terra ma anche dalle fronde, dalla chioma che mi piace chiamare “radici celesti”, perchè vanno verso il cielo. Sempre tenendo presente questo disegno di armonia che è il cerchio. I materiali hanno una bellezza straordinaria e ognuno ha un suo posto dove collocarlo per un’armonia più generale. Ancora una volta mi sento un “maggiordomo dell’arte”. Il maggiordomo è quello che mette a posto. Maggiordomo significa essere un operaio, un operaio il cui datore di lavoro è l’ispirazione, è la luce stessa. Mi piacerebbe che l’arte potesse traghettare queste buone nuove, buone visioni, che potesse portare nel materiale qualcosa che c’è nel mondo, straordinario, pieno di mistero. In questo senso operaio dell’arte, nel senso che la creatività non è di proprietà mia, artista, o tua ma è alla portata di tutti. Ci sono operai specializzati che sanno come materializzare quelle che si chiamano opere d’arte ma ci sono altri operai che materializzano solo il proprio stile di vita con creatività. Non c’è bisogno che tutti facciano quadri, sculture o architetture. L’importante è che creino la loro vita, quello che è a loro congeniale. Ma che lo facciano in maniera creativa. E maniera creativa significa ogni cosa in onore della luce, del mistero. Ogni cosa che io faccio come artista o come essere vivente io lo dedico, lo offro a quel Mistero che a sua volta mi ha donato qualcosa che io tento di materializzare. E anche qua potete visualizzare un grande cerchio che parte da lassù in alto, da questa grande sfera di luce, attraversa me o te e si materializza attraverso le mie mani o le tue mani in qualcosa di artistico oppure in qualcosa di vissuto artisticamente. E mentre si vive a regola d’arte o si fa arte, il mio pensiero, il mio cuore riempie questo manufatto o questo vivere di ardore per il Mistero e di ringraziamento e gratitudine per la Luce, che mi ha donato l’idea. Ecco il grande cerchio ed ecco la mia appartenenza e la tua appartenenza al grande cerchio, all’armonia della vita.
Un excursus per chi intenda conoscere i famosi “concetti” che materializzi in opere, a partire dal concetto che riguarda la geografia sacra. Tu hai realizzato tanti lavori con la cartografia, anche dal punto di vista architettonico, quindi come messaggio di unità tra le nazioni, senza confini, ritroviamo il concetto generale di unità. Da qui puoi riassumere, per chi intende addentrarsi nella tua opera, i concetti che sottendono alle tue creazioni? Dagli animali sacri che hai rappresentato in tantissime opere, alla fiamma sacra – mi ha colpito in particolare il fatto che nel tuo studio di Milano hai queste enormi stoppini fissati dal pavimento al soffitto da accendere in onore dell’ospite che arriva - e poi dagli strumenti musicali abitati ai guerrieri d’amore negli arazzi, nei dipinti. Tracciamo una panoramica nel micro-macrocosmo di Tarshito.
Microcosmo- macrocosmo non “di” Tarshito ma “attraverso” Tarshito, perché prima ho tentato di chiarire questo concetto di essere tramite, di essere operaio. Mi piace molto questo. Rispetto alle geografie sacre, uno slogan, un bel pensiero è “Una sola terra, una sola umanità”. Sai, mischiando le zone in questo momento più pericoloso, tutto si mischia. Anche i confini non sono più quelli, quindi si ricrea un’unità sul pianeta Terra. Qualcuno dice che questo pianeta Terra non sia stato creato seguendo dei confini: è stato creato unito. E’ l’uomo che ha creato queste divisioni. Ma creando queste divisioni fuori, l’uomo ha creato le divisioni anche dentro. Ecco un po’ questa follia a cui stiamo andando incontro sempre di più. Io mischio le nazioni per trovare l’unità, ma per trovarle dentro me stesso. Rispetto agli animali sacri anche là voglio abolire la diversità….a furia di vedere gli animali sacri come creature ho smesso di mangiarli, ad esempio. Dunque visivamente l’animale nell’arte che propongo è soggetto a metamorfosi. Per esempio la tigre il cui simbolismo è la forza, la ferocia, ha la coda che diventa vaso, cioè ricettività. Cosa significa? Vorrei essere forte come una tigre ma anche ricettivo: dunque ancora una volta un’unità. E così via. Fino ad arrivare ai guerrieri d’amore che è un concetto a me molto caro, in cui semplicemente, ma in maniera straordinariamente forte, ricordo a me stesso di mettere fuori, di visualizzare, di vivere ogni mia qualità, e che questa qualità possa essere forte e viva come un’arma. Ma l’arma offende. La qualità al massimo può difendere. Un piccolo esempio: ero venuto e avevo tanta violenza contro di te ma la maniera come mi hai accolto, il tuo sorriso, il tuo ricevermi, mi ha completamente disarmato. Questo esiste. Noi lo viviamo in piccolo, ma non gli diamo molta importanza. Se ognuno di noi è al massimo come qualità al positivo diventiamo tutti guerrieri ma per una guerra d’amore, non di conquista e di aggressività.
Quindi basta brillare, accendere la luce interiore anche per far fronte alla continua sopraffazione tra gli uomini? Come spieghi il continuo polemòs che, come sosteneva Eraclito, domina l’esistenza umana? Come possiamo contrastare questo? Attraverso la consapevolezza?
Mettendo fuori al massimo le tue qualità e disarmando altre persone che in quel momento non stanno usando le proprie qualità anzi, stanno usando il contrario, per varie ragioni…voglio conservare tutta la mia energia nel tentativo di camminare verso il meglio di me, affinchè la parte forte e positiva che ho e che ogni creatura ha, possa essere contagiosa e possa equilibrare questo senso di sopraffazione e violenza di cui tu parlavi.
Per quanto riguarda gli “Strumenti musicali abitabili” ho letto che hai avuto l’ispirazione quando sei andato a San Gimignano..
Si, ero a San Gimignano, una città magnifica, bella. In un portico che aveva un’architettura bellissima c’era un’arpa (conosciamo la bellezza dell’arpa) e un suonatore completamente ispirato seduto su di una cassetta di acqua minerale blu di plastica, orribile questo contrasto. In quella situazione mi è venuta l’idea di progettare degli strumenti musicali che accogliessero il suonatore, per cui anche là, provare a realizzare una totalità, un’unione tra strumento musicale col suonatore seduto: una specie di veicolo molto potente diretto verso il Divino. Ecco che è venuta fuori una piccola collezione di strumenti musicali abitabili.
Quali sono stati gli artisti o comunque i modelli che hanno ispirato all’inizio la tua arte?
Si, i modelli artistici: mi viene da dire sicuramente Mario Merz, amo molto la sua potenza. L’ho conosciuto anche, è stato interessante. Mario Merz mi piace molto per la sua forza in architettura che incontra pittura e scultura. Mi piace molto anche Alessandro Mendini per la sua varietà, per la sua capacità di entrare a 360° in qualsiasi progetto e risolverlo. E’ proprio un “danzatore” Alessandro Mendini. Ho inoltre frequentato molto e ha tutto il mio rispetto Ugo Marano, grande e straordinaria persona, davvero la creatività in Terra: con lui ho percorso proprio un pezzo di vita, mi ha insegnato moltissime cose. Queste sono le tre persone che mi vengono in mente in questo momento.
Tu che sei anche insegnante all’Accademia di Belle Arti di Bari, cosa consigli ad un allievo che vorrebbe intraprendere il percorso artistico?
Io non è che consiglio, faccio fare l’esperienza come professore agli studenti su come prepararsi a ricevere l’ispirazione. Perché la creatività per me - ma non è una novità - arriva attraverso l’ispirazione e l’abbiamo un po’dimenticato: non c’è una preparazione per coglierla, per riconoscerla. Questo mi sembra bello, faccio queste lezioni, pezzettini di lezioni ad occhi chiusi per tentare di aumentare questa visione di fili di connessione con il Mistero stesso. Quindi più che consiglio lascio spazio alla sperimentazione in questo senso. E anche qui, nel mio studio-villaggio, ogni tanto realizzo dei workshop in cui si sperimenta questa possibilità anche attraverso il silenzio, la parola e la materializzazione di opere.
Per Tarshito dove va l’arte contemporanea italiana?
Io non ho idea, ho idea di dove sto andando io, che mi sento un artista contemporaneo italiano. Vado nella profondità attraverso le mie radici che vorrei sempre più generose e profonde e che vengano fuori in vari luoghi del mondo: queste radici che portano anche possibilità di realizzare opere, che possano materializzarsi in vari luoghi. Tutto questo per tentare di sentire l’essenza della vita attraverso l’arte, per cui evviva questa possibilità di sentirsi uniti.
http://www.tarshito.com/