Louis-Ferdinand Cèline (1894-1961; il cognome è preso dalla nonna, in realtà egli si chiamava Destouches, ma odiava il padre e quindi ricorse a questo pseudonimo) ha scritto molto, praticamente intorno a se stesso. I suoi scritti, in prima persona, sono un viaggio straordinario all’interno dei pensieri e delle sensazioni umane. La scrittura è diretta, spesso infarcita di “argot” che purtroppo, pur nelle eccellenti traduzioni in italiano, fra cui quella di Giorgio Caproni, è una scrittura che va immediatamente al punto e che lì rimane sino allo sfinimento, attraverso analisi spietate e crudeli della natura umana.
Le considerazioni dello scrittore francese, espresse con grande chiarezza in “Viaggio al termine della notte” e “Morte a credito”, sono figlie delle terribili esperienze che Cèline visse nel corso della Prima guerra mondiale: pochi mesi intensi, fra il 1914 e i 1915, dove alla fine fu ferito gravemente ad un braccio e alla testa. Le terribili esperienze, lui prima volontario nell’esercito e poi entusiasta combattente per la patria, furono dovute alla delusione per la realtà degli scontri. Nessuna epicità, solo sangue e morte e urla e disperazione e angoscia ogni giorno, in ogni momento. Cèline descrive impotente e spaventato montagne di cadaveri ovunque intorno a lui, montagne di cadaveri senza soluzione di continuità. E’ medico ed interviene a soccorrere i feriti: è la parte più straziante della sua vita al fronte, quella che gli darà cupezza e dolore esistenziale, riducendosi, non per lenirlo, ma per subirlo in modo ancora più atroce, a concepire una sorta di nichilismo. Il nichilismo di Cèline riguarda l’incapacità dell’uomo di giungere ad una consolazione morale e materiale di qualche autentica consistenza intellettuale. L’uomo, pensa lo scrittore francese, non è in grado di ragionare, nonostante abbia le doti per farlo, preferisce seguire l’istinto primitivo: è più facile ed è in linea con l’evoluzione industriale moderna.
I due romanzi sono una volontaria discesa all’inferno, un eccesso che si è consolidato nel suo animo nell’assistere alla carneficina di quella tremenda guerra. La Seconda sarà peggiore, ma in modo indiretto, e non toccherà la Francia, subito caduta e divisa in due parti: la cosiddetta Francia libera, sotto amministrazione tedesca, e la Repubblica collaborazionista di Vichy. Il Maresciallo Petain diventa alleato di Hitler. Cèline vive di espedienti, fa il medico dei poveri (visita e cura senza fasi pagare), trova un margine di operatività collaborando con i nazisti (dirà che non era pagato dalle riviste cui presta la sua penna a favore degli occupanti, ma la cosa è dubbia), licenzierà due pamphlet “Bagatelle per un massacro” e “La scuola dei cadaveri”: le quattro opere citate costituiscono, secondo la vulgata, il corpus essenziale degli interventi letterari del francese. Nei pamphlet vi è sottesa una rabbia per lo stato delle cose derivato dalla crudeltà e dal cinismo del sistema. Sono due cose alle quali Cèline si adegua, pur puntando ad altro.
La questione sta così: il nostro scrittore fa un’analisi frettolosa e spietata del sistema che non funziona, individuando nella lotta fra le varie parti, borghesi, della società per il predominio, per il potere. Egli aveva sperato nella capacità di pacificazione del nazismo, avendo osservato come il regime hitleriano fosse stato abile nel mettere ordine in Germania. La sua dittatura aveva annullato i disordini interni. Da ingenuo idealista non aveva capito che Hitler era uno strumento della grande industria, non un politico illuminato. Il fatto che la guerra si protraesse lo portava a cercare dei capi espiatori, escludendo il vincitore dell’Europa (in effetti un pacificatore, specie ad Est, dove aveva armato dei veri e propri assassini per il sterminio dei più deboli, considerati inutili e quindi rapinabili dei beni e della vita). E’ molto probabile che Cèline non ne fosse bene al corrente. Non restava che prendersela con la plutocrazia e con la alimentava: gli Ebrei.
Lo scrittore sosterrà – nel subire un processo a fine guerra – di non essere mi stato antisemita, di avere solo parlato degli Ebrei, non contro gli Ebrei. Ma, come si dice, carta canta e nel suo caso spesso urla contro la feccia ebraica. Chi gli voleva bene, cercò di ridimensionare la portata di queste urla, affermando che Cèline parlava sostanzialmente in generale, prendendosela con le comunità chiuse, fra le quali quella ebraica era sicuramente la più rilevante e la più ricca, ergo la più in grado di condizionare l’economia, e quindi la politica, degli stati. Egli era come accecato da idee preconcette e non riusciva a vedere che gli Ebrei cui alludeva erano ricchi signori che stavano lontano dalle fiamme europee. A bruciare era la povera gente. Il suo era quindi un antisemitismo accademico, colpevole di superficialità, a parole non lontano dalla brutalità nazista. In ultima analisi a Cèline importava poco del problema: coerentemente egli perseguiva una società ideale in cui tutti fossero a disposizione di tutti. Non era il comunismo ampolloso di Sartre, era piuttosto un Cristianesimo materialista.
Il fatto che non si realizzasse dava ragione al pessimismo del nostro scrittore, il quale, francamente, meglio avrebbe agito seguitando ad inseguire gli incubi personali, facendoli diventare generali, facendo capire, attraverso esempi, la brutalità del mondo contemporaneo e la volontaria limitatezza dell’uomo. In effetti, pur cercando di inglobarlo per giungere al risultato citato, Cèline andò su un altro tema, un tema di carattere sociale, allora in gran voga (non per quanto riguarda i massacri hitleriani, ma per quanto riguarda la plutocrazia e gli Ebrei ritenuti i suoi massimi detentori, con assurde ricadute volgari sulla massa ebraica), non approfondì il tema antropologico. Il suo pessimismo, alla pur remota, anzi remotissima, ricerca di nessuna conferma, si borghesizzò con i due pamphlet, cercando una via d’uscita banale al nichilismo di stampo umano.
Meglio il Cèline dei romanzi, e soprattutto del primo, nei quali l’autobiografismo è una testimonianza terribile della disperazione umana che da vitale sa farsi esistenziale. Qui vi sono pagine di rara intensità, senza che trapeli un’emozione. Molto cinismo (falso, forzato, ma non in modo palese) e un pizzico si amara ironia, come rifugio alla grossolanità della tragedia materiale e morale. La seconda particolarmente insopportabile, ipocritamente sopportata, infine maltrattata con freddo cinismo (un atteggiamento autentico, razionalizzato con profonda sconsolatezza).