un Testo filosofico per una giovane Viviana Valla in via Ventura /// a cura di Arianna Baldoni

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Ieri ha inaugurato, presso il luminoso spazio della galleria Monopoli di via Ventura al 6, una personale di una giovane artista (26 anni), Viviana Valla, dal titolo Minimi Termini. Lavori su piccole e medie tele dallo sfondo bianco. Stratificazioni di collage, gesso, skotch, post-it, con piccoli tocchi qua e la di tracce …oggetti, come piccole case, in realtà poi lapidi, pesci, minuscole persone … La mostra è curata dalla giovane critica Arianna Baldoni, di cui mi ha colpito il testo. Arianna sviscera, direi quasi filosoficamente, la struttura dei lavori e della testa dell’artista, in maniera molto apporfondita. Che oggi per una personale di un giovane è raro vedere…riporto dunque il testo intero del catalogo, perchè si può imparare qualcosa …

MINIMI TERMINI

“L’inconscio non è il messaggio,

per quanto strano, per quanto cifrato,

che ci si sforza di leggere su una vecchia pergamena,

ma è un altro testo, scritto al di sotto,

che bisogna leggere in trasparenza o con l’aiuto di qualche rivelatore”.

Serge Leclaire

Microcosmi nella radura del visibile. La ricerca artistica di Viviana Valla risponde a uno specifico codice linguistico-geometrico, che ad un primo sguardo sembra strutturarsi secondo una rigida e lineare suddivisione spaziale interamente costruita sulle tonalità del bianco e di lievi velature di colore – forse qualche assiduo osservatore potrà intravedere minuscole macchioline -.

Lo spazio pittorico appare incontaminato, un paesaggio geometrico-astratto che si dispiega nella scansione, quasi modulare, di linee rette e campiture monocrome. Solo attraverso un processo di percezione lenta si scoprono minimi rimandi grafici, verbali e simbolici. Affiorano gradualmente – a volte continuano a nascondersi – micro narrazioni, aforismi, frasi tratte da canzoni, parole, sequenze numeriche e “letterali”, piccoli ritagli di giornale, di vecchie rubriche telefoniche, di carta da parati, di pensieri improvvisati. Ogni storia emerge e al contempo scompare, si afferma e poi si nega, nel gesto reiterato e nello spazio mentale dell’artista.

Tutto è ridotto a un livello di minima visibilità, lo sguardo è in grado di cogliere solo la parzialità della stratificazione segnica e materica che viene sottoposta a continue cancellazioni e nuove sovrapposizioni di gesso, pastello e frammenti cartacei.

Questo universo segnico nasce dal bianco – l’artista stende una base di gesso acrilico bianco sulla tela ottenendo la prima vibrazione del colore – e dal bianco viene ricoperto nuovamente a formare una molteplicità di livelli e sedimentazioni materiche.

“Il colore. Il bianco. Si impara a pensare il bianco. Incerto ineffabile. Tempo indefinito. Spazi bianchi collegano le frasi- isole di un amichevole Arcipelago Paradosso. Il bianco copre materie segrete (nasconde per mostrare, senza dire). Si pensa al bianco come a una arena delle probabilità; al luogo dove coesistono le contraddizioni. Come al disco rotante dove ogni colore (così come le contraddizioni) si annulla nel bianco”2 (Gianfranco Baruchello). Lo spazio bianco è il vuoto che sottende, sovrasta, circonda l’immagine – come avviene nelle opere su carta –, ma è anche l’apertura, il luogo della possibilità e dell’immaginazione, diviene un elemento di sospensione da cui emergono micro-segni e al contempo funge da espediente per scavare, incidere e graffiare la superficie.

Il graffiare la superficie è il primo passaggio verso la frammentazione. La rottura dell’ordine geometrico si determina nella casualità del gesto risoluto e pesante, e si accresce nella disseminazione di oggetti impercettibili, scritture dipinte e incollate. L’opera è un percorso labirintico tra una moltitudine di linee-vie dove transitano erranti “minimi visibilia”3, entità dall’andamento entropico che generano uno spazio privo di centro e periferia. Ridurre l’esistente ci costringe a mettere a fuoco, a decifrare e indagare la realtà, nel margine di possibilità che ci consente la nostra visione. Le opere di Viviana Valla sono accumulazioni, aggregati di particelle, figure stilizzate, impronte della memoria. La scena si svolge nella dimensione intima, in alcuni casi domestica – come nel ricorso ai tradizionali gigli della carta da parati – , l’io si relaziona al mondo secondo legami variabili di apparizione e sottrazione. L’artista ci spinge a vedere, per scendere nei livelli più profondi della nostra coscienza, dove tutto accade senza rivelarsi, dove si annidano ansie, paure e angosce. Si è isolati, disorientati perché trascinati nella propria esistenza.

L’io è precario. In questa instabilità e nell’apparente solipsismo che guida il fare pittorico, l’artista ha l’esigenza di colmare l’interstizio, la fessura-frattura che la separa dalla realtà. Ricodifica l’esistente e al contempo vi si sottrae – ci racconta qualcosa di sé e immediatamente lo cancella, per poi farlo riaffiorare e rimuoverlo un’altra volta – lasciandoci minime tracce e figure miniaturizzate al limite del visibile. Non vi è alcuna prevedibilità, gli agglomerati segnici diventano delle macchie, da cui si liberano uno o più elementi come un’eco che si disperde sulla tela, ugualmente nei disegni il colore tende a uscire dal perimetro del riquadro geometrico originando molteplici derive. La casualità si evidenzia nella precarietà del linguaggio con parole che si spezzano, si frantumano, e riscrivono un nuovo alfabeto – ad esempio nell’opera The beginner la frase “volo solo” si trasforma in colo, scolo, tolo, molo, volo, solo, so, so, so… e ancora in Per grazia ricevuta dalla parola “scatafascio”  niziano a cadere delle “o” simili ad una pioggia di sassi -.

Persiste un continuo riposizionamento dei significati e dei valori semantici, l’artista “setaccia” e graffia la superficie, scava nell’inconscio personale risvegliando desideri e sentimenti reconditi, recupera la memoria più intima e profonda, e al contempo soffoca e respinge gli antichi reperti venuti alla luce. L’io è seppellito da una moltitudine di stratificazioni, è seppellito nell’immagine ricorrente di lapidi, di uomini supini che volano nella dimensione eterna del quadro, e nelle frasi infinitamente piccole, come ad esempio:

“I pesci non chiudono gli occhi, forse mi hanno vista nascondere il mio stesso cadavere – continua nella seconda tela – li farò disperdere a mare in modo tale che non possano parlare”. L’io si determina nella contrapposizione, che nuovamente si esplica nel paradosso linguistico – far tacere i pesci facendoli disperdere nel mare – e nella ripetuta negazione di ciò che non trova possibilità di realizzazione nel mondo, a cui però l’inconscio si rivolge come tensione ideale verso il reale. La figura del pesce, così frequente nel lavoro dell’artista – analogamente a quella delle reti da pesca -, indica e rappresenta il significante che è sfuggito alle maglie più strette della coscienza. “È il mondo dell’acqua, in cui è sospesa ogni vita, – scrive Jung – dove comincia il regno del ‘simpatico’, l’anima di tutto ciò che è vivo, dove io sono inseparabilmente questo o quello, dove io esperimento l’altro in me stesso e l’altro esperimenta me come Io. […] Chi guarda nell’acqua, vede, è vero, la propria immagine, ma ben presto dietro di essa emergono esseri viventi; sono probabilmente pesci, innocui abitatori del profondo; innocui se il lago non rappresentasse per molti un incubo. Sono esseri acquatici di tipo speciale”.

I contenuti segreti mutuati dall’inconscio si manifestano nel lavoro di Viviana Valla nell’opposizione di legami e relazioni che l’io stabilisce con sé medesimo e con l’ambiente esterno, sebbene quest’ultimo risulti effimero e incerto. L’artista crea dei microcosmi in cui non esistono enti dominanti, tutto è ridotto a una simbologia che si “equilibra” nella duplicità di significato: la croce è anche il segno +, l’“aritmetica” lettera y rimanda – come spiega l’artista – ai semi dei soffioni, le case sono sagome vuote e figurine con camini fumanti, le foglie e le farfalle sono esseri vitali e fugaci, i contorni delle immagini appaiono nitidi e sbiaditi, definiti e “prolungati”. Questa costante contrapposizione tra valori ambivalenti, tra forma geometrica e disseminazione segnica, tra il gesto della cancellazione e della copertura, tra ordine e disordine, tra io e non-io si risolve e viene superata nella sintesi del procedimento artistico. Nel divenire dell’opera si scoprono oggetti minimi in antitesi al gigantismo del mondo reale, abitanti di un tempo contemporaneo in diacronia con quello presente, che indicano il cammino e immediatamente scompaiono come briciole lasciate lungo un sentiero invisibile.

 

 

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