PaoloVirzì è un regista che ha sempre avuto un rapporto privilegiato con la scrittura, meglio, è uno dei pochi, pochissimi registi italiani che sa scrivere. Ha sempre firmato le sceneggiature dei suoi film, col suo collaboratore storico Francesco Bruni, giovandosi, saltuariamente, della scrittura di Francesco Piccolo e di Furio e Giacomo Scarpelli. I dialoghi dei suoi film sono serrati, veloci, disinvolti, ma profondi. Un’ottima cifra letteraria Virzì la mostra nel racconto fuoricampo, esemplare in questo senso è Ovosodo.
Virzì viene, notoriamente, indicato come colui che, dopo stagioni di stallo e di noia della cosiddetta commedia, l’ha riformata. Le storie del regista non si fermano alla prima striscia del racconto, sottendono sempre qualcosa di importante. Non si tratta della scorza sottile di un cinepattone, giusto per trovare un riferimento, ma di vicende che raccontano il malessere, quasi sempre giovanile, di questa epoca e dicono cose importanti con leggerezza, facendo sorridere, magari persino ridere. Non è facile. I nomi che ricorrono in questo senso sono quelli (magari con un pizzico di enfasi) di Wilder e del nostro (senza enfasi) Moretti. Riferendosi ai tempi belli del nostro cinema, ai Risi e Monicelli, esempi che Virzì… forse raggiungerà. Per Tutti i santi giorni, il regista ha adottato il romanzo La generazione di Simone Lenzi. La sceneggiatura è firmata dallo stesso regista, dal solito Bruni, e dal romanziere. Affidandosi a Lenzi è come se Virzì non volesse uscire dal seminato tutto toscano, anche lo scrittore è un livornese, con tutta la cultura e i sentimenti che ne derivano. Ironia urticante compresa e senso del paradosso della vita, che lo scrittore esprime nel risvolto del romanzo. “… La vita funziona al contrario se ti ritrovi a passare le notti seduto alla reception di un hotel in compagnia di antichi testi di medicina, mentre il facchino dorme e non sono previsti altri arrivi.”
E va detto che anche Simone, alla fine, è un perfetto personaggio alla Virzì. Ha studiato filosofia senza laurearsi, e, in attesa di diventare il cantante dei Virginiana Miller, ha fatto l’accompagnatore turistico, il libraio a Brema (?), il programmatore e il venditore di Jeans. Più “Virzì” di così…
Il romanzo ha di fatto due incipit. Il primo riguarda il protagonista decenne che guarda i grandi. Il secondo è già una premessa che racchiude quello che sarà. Com’è dovere di un incipit. Eccolo.
L’arte è lunga
Questa donna seduta accanto a me in sala d’aspetto ha subito colpito l’attenzione di mia moglie, che mi indica con lo sguardo la cartellina che tiene in mano. È sola, pare. Il marito non l’ha accompagnata. Indossa una tuta da ginnastica che deve aver trovato in un negozio di taglie conformate. Porta scarpe da tennis comode. I capelli biondi sono arruffati. Suda molto, sbuffa in continuazione. Sulla cartellina ha scritto il suo nome con un pennarello blu. A caratteri cubitali e sotto, quello del marito: Milena Manifesta, Dario Bernocchi. Di lato, in verticale, con il pennarello rosso 3° tentativo ICSI. Al tempo del primo colloquio, quando la ginecologa ci ha spiegato le varie tecniche di fecondazione artificiale. Abbiamo imparato che ICSI sta per Iniezione Intracitoplasmatica dello Spermatozoo. Un singolo spermatozoo viene cioè iniettato con un microago direttamente nell’ovocita. Ma non so niente di biologia, in effetti”.
Il libro è dunque una rappresentazione di contrasti, fra attitudine e lavoro, fra realtà e desideri, fra marito e moglie, fra culture diverse. Con un nodo davvero gordiano, la paternità, che non significa maternità. Intorno a questo si incentra la storia di Dotto (nome non casuale) giovane coltissimo, che basterebbe a se stesso: gli basterebbero i libri, la passione e la sua cultura. Per questa ragione tollera di fare “semplicemente” il portiere, impiego che gli lascia il tempo per libri e pensieri. Antonia lavora in autonoleggio, ma anche lei mantiene un sogno se non proprio una promessa, scrive canzoni, e le canta, a suo modo.
Lenzi descrive con ottima scrittura il rapporto:
“… Per un accordo non scritto che pure ci impegna, nella divisione del lavoro familiare andrà a finire come sempre: io sarò tutto in teoria e lei organizzerà il lavoro. Lei proteggerà me dalla fila per pagare il ticket, io proteggerò lei dai bugiardini dei medicinali, dai tecnicismi, dagli effetti collaterali, dalle sintomatologie e dagli indizi fausti e nefasti.”
Realizzati per cultura e sentimento -i due si amano con passione- si accorgono della mancanza di qualcosa di vero e concreto, e più “umano” di ogni altra cosa, sogni compresi. Un figlio. Che però non arriva. Si tratta così di forzare la “pratica”. Fecondazione assistita con tutto ciò che ne consegue, di gag, di battute, di equivoci e di rapporti con gli altri. E poi la lingue, anzi le lingue, perché i toscanacci si trovano fra romanacci che di più non si può. Un esercizio che sarà piaciuto un mondo al regista. Il cinema sposa un romanzo. A volte il matrimonio riesce.