Hanno salvato Villa Adriana, evviva Villa Adriana. La discarica a Corcolle non si farà, il Prefetto di Roma, Pecoraro, ha dato le dimissioni; la Polverini, sconfitta moralmente e politicamente, lancia strali e doglianze a destra, e soprattutto a manca; Alemanno passa la palla avvelenata a Zingaretti ed alla provincia; la società civile pare abbia fatto sentire la propria voce; il Superman in incognito, secondo i rumors, sarebbe stato il Presidente Napolitano, con la propria moral suasion.
Villa Adriana, il giorno dopo. Il pericolo rifiuti è stato aggirato. Al cessare del pericolo, però, singolarmente è probabile che vengano meno anche quelle attenzioni che in modo implicito, sia pure nella preoccupante contingenza del rischio conservativo, avevano riconsegnato il complesso storico-artistico alla propria naturale dimensione, troppo spesso trascurata: quella di un’arte che esiste per essere conosciuta e divulgata, fatta comunicazione, filo invisibile tra uomini lungo la sutura della Storia. Infine, un’arte che sappia diventare produttiva di valori: l’aggregazione a la difesa della propria memoria, in questo caso.
Ma ora? La discarica, quella fisica, si farà altrove. Ciò non toglie che Villa Adriana possa finire in una discarica “virtuale”: tanto rumore per nulla. Il dimenticatoio. Se si vuole che la vicenda sia davvero “istruttiva”, sull’onda di Macao a Milano e dei CAMouflage di Antonio Manfredi a Casoria, bisogna battere il ferro finché è caldo ed istituire un’azione continuativa di valorizzazione atta a superare il confine dell’episodio, per farsi cultura. Permanente.
A Milano, sabato 5 Maggio i cittadini e i lavoratori dell’arte, dello spettacolo e della cultura sono entrati nella torre Galfa per aprire Macao, un nuovo centro per le arti di Milano. Si tratta di un grattacielo di proprietà di Fondiaria SAI, il cui presidente onorario è Ligresti. È abbandonato da più di quindici anni. Lo scopo dell’azione, un ibrido tra happening di protesta e sit-in, era quello di attivare una riflessione sul ruolo che la finanza detiene nella determinazione del tessuto urbano: che poi, altro non è che lo spazio della vita, a cui il collettivo punta con un’opera di ri-appropriazione. È stata poi la volta di Palazzo Citterio: 40 anni di studi, progetti e promesse perché diventasse un museo. Per poi restare miseramente un edificio pubblico inutilizzato. L’epilogo è stato lo stesso di torre Galfa: lo sgombero. L’epilogo?
Il Museo CAM di Casoria pure ha fatto parlare di sé, da un contesto, peraltro, assai più problematico rispetto alla cassa di risonanza della metropoli. Denunciando la mancanza di sostegno sociale, politico ed economico, da cui l’impossibilità di garantire standard minimi di conservazione, fruizione, valorizzazione e promozione delle opere, i lavori in mostra sono stati sostituiti con delle fotocopie. Contemporaneamente all’apertura al pubblico delle sale del museo, è stata distrutta l’opera di Antonio Manfredi presentata alla 54° Biennale di Venezia. La cancellazione dell’opera d’arte è il gesto estremo di ribellione alle condizioni insostenibili della cultura nel sistema socio-politico. Eppure, paradossalmente, è un gesto artistico: anch’esso, propriamente, un happening, che rispettando lo statuto ontologico dell’arte stessa, si fa comunicazione, trasmissione di un valore.
Milano e Casoria. In mezzo Roma, e Villa Adriana. Se la vera urgenza è quella di creare una breccia nel sistema contestato sia dal collettivo milanese che dalla Direzione Artistica del CAM, il crocevia geografico e politico romano deve diventare determinante: alla Polverini bisogna rispondere con un polverone. Ora che l’estetica e la politica, la conservazione e la protesta si stanno più chiaramente incrociando, vien voglia d’impacchettare con gioiosa rabbia il complesso monumentale di Tivoli. Che fine hanno fatto Christo? La rivoluzione è quella degli occhi – che non vedono; e della mente, che al loro posto vede. Un ciclo di installazioni a Villa Adriana non solo creerebbe un trait-d’union tra passato e presente, ma dimostrerebbe il potenziale tutt’altro che sterile dell’arte contemporanea nell’opinione pubblica. Christo Javacheff e Jeanne-Claude (purtroppo quest’ultima deceduta nel 2009) hanno sempre sostenuto, con i propri impacchettamenti su vasta scala di monumenti cittadini e con i numerosi interventi ambientali, di voler rendere il mondo un luogo più bello o di creare nuovi modi di vedere i paesaggi familiari. Il caro vecchio shock, serve ancora.
Perché la situazione è difficile, penosa. Questo vuol dire – “situazione difficile” – Plight, titolo di una delle actions più affascinanti di Joseph Beuys. Si tratta di un grande ambiente realizzato, qualche mese prima di morire, negli spazi della galleria di Anthony d’Offay a Londra (novembre 1985) ed ora conservata al Centre Pompidou di Parigi. Erano due sale ad L con le pareti ricoperte da grandi rotoli di feltro grigio-bruno (composto di lana di pecora e pelo di coniglio) giustapposti in doppia fila come tozze colonne. Nella prima stanza è situato un piano a coda nero, serrato, su cui è posta una lavagna appena segnata dalle linee di un pentagramma, con sopra un termometro. La rifondazione sensoriale dello spazio, il silenzio della musica potenziale, la temporalità sospesa, l’odore del feltro, la luce fredda del neon producono un effetto straniante: “Senza dubbio questo distacco di se stessi dalla società è un elemento di non comunicazione: un elemento negativo, un sentimento di disperazione come lo si trova nel teatro di Beckett. Il feltro ha, tuttavia, un’altra qualità: protegge gli uomini dalle cattive influenze che vengono da fuori. È dunque anche un isolante in senso positivo (...) È così che è saltata fuori l’idea d’una sala da concerto senza risonanza, dunque totalmente negativa, concepita come dimostrazione dell’esistenza di una frontiera dove tutto si articola attorno ad un punto critico” (Joseph Beuys, nell’intervista rilasciata a S. Morgan nel 1986).
Il punto critico: ecco. Far rinascere un senso critico nel contesto di una Plight, una situazione critica: perché la mancata apertura della discarica non diminuisce la criticità di un sistema impazzito, come ben dimostrano i casi di Macao e del CAM. Se fosse proprio l’arte a far parlare di sé, a prolungare il dialogo, a stimolare le menti e gli occhi, la sensorialità tutta – a farci sentire uomini come è proprio dell’arte: non ci sarebbe bisogno della moral persuasion di Napolitano su Villa Adriana. Rendiamo la Villa un centro di propulsione. Diventi il contesto di un cartellone di iniziative artistiche, e dopo la strategia dell’attenzione si passi alle misure concrete: mappatura, analisi dei materiali, archeometria, termografia, geo-radar e remote-sensing. Non ha senso salvarla, se poi la si lascia marcire come una nuova, vecchissima Pompei. Il dialogo continui. Movimento e movimentismo sono cose diverse, l'isola deve diventare arcipelago.