Senza attendere il futuro, se ancora ci si vuole scandalizzare con Godard sarà il caso di scegliere meglio. Nell’intrico di trame spettacolari e materiali culturali della società dello spettacolo, può darsi che sia più grave non aver mai ballato, che non aver mai visto Rancho Notorius, non sapere chi ha vinto gli ultimi campionati di Formula Uno e a quali velocità che non conoscere Ben Hur, non aver visto PROCESSO PER STUPRO che non aver visto NON RICONCILIATI, non aver assistito ad un processo per stupro che non aver visto LAURA, non aver mai giocato con gli omini dei video-games, che non aver visto DIES IRAE, non aver mai letto La sonata a Kreutzer che non aver mai visto LA CORAZZATA POTEMKIN, non conoscere Jim Morrison che non aver visto tutti i film di Coppola prima di APOCALYPSE NOW, non aver accarezzato la nuca di una ragazza che non aver visto il bellissimo BERSAGLIO DI NOTTE di Arthur Penn.
(da Enrico Ghezzi, Di(s)soluzioni e dissolvenze della critica cinematografica)
Rischio di darmi la zappa sui piedi, perché sono un giovane professore in abilitazione nella classe A-061 per l’insegnamento in storia dell’arte. Ma in tempi di rottamazione delle caste, avverto, intenibile, l’urgenza di raccogliere i resti – beninteso: non di picconare io stesso, ché sono i tempora, con i loro mores, a fare i morituri – di quell’assunto gentiliano per cui “chi sa, insegna”; e di quei cadaveri ambulanti che tra docenza universitaria e curatela presso gallerie e musei, fanno il bello ed il cattivo tempo della (in)cultura italiana, forti di un "sapere" che darebbe diritto ad insegnare. Si viene a scoprire, anche solo con la smaccata identità di cognomi, di storie di professori universitari figli di professori universitari; e di critici e curatori figli di altri critici. Ancora? Nel 2013? Nell’epoca in cui tutti, volendo, possiamo essere figli di un unico professore che si chiama Wikipedia, o più in generale del web?
A questa casta dei “figli di” - sia pure con la cautela del "caso per caso", per non gettare bambino ed acqua sporca - è forse opportuno che altri "figli di" (ma in un diverso senso) cominciassero a dare gli opportuni calci nel culo, portando avanti una battaglia culturale dall’assunto ben preciso: se gli arrivisti e gli arrivati per parentela non sono responsabili del meccanismo sociale per cui si sono trovati a frequentare ambienti culturalmente elevati, e quindi ad aver occupato postazioni importanti, è altrettanto vero che il web 3.0 mette potenzialmente tutti nelle condizioni di frequentare un ambiente virtuale, e di attingere ad uno stimolo di conoscenza non meno pregnante, di quella della famiglia o della casta. Allora perché ci dobbiamo ritrovare ancora con le dinastie in ateneo ed in testata? Per il semplice fatto che la casta culturale è implicitamente una casta sociale. Per cui, da un lato tutti possono sviluppare conoscenza; ma dall’altro, Orwell s’ibrida spaventosamente a Darwin, ed allora la conoscenza di alcuni è più uguale della conoscenza degli altri… se gli alcuni hanno un pedigree nobiliare; e solo la conoscenza degli alcuni, allora, diventa visibilità, fama, retribuzione, lavoro. Quello che si sa, è conoscenza; ma se per trasmetterla, si mette in atto un meccanismo d'implicita prevaricazione sociale e di conservazione corporativa, con quale coraggio la si può dire cultura?
Non posso fare i nomi ed i cognomi, per ovvie ragioni; ma l’implicita, irritante noblesse da ancient regime nel campo dell'arte che trasuda da una serie di episodi vissuti in prima persona, è avvilente non tanto per il sottoscritto, quanto per tutta una generazione di nuovi critici e storici che morde il freno, ma a cui comunità chiusissime come le gallerie o le istituzioni formative fanno scudo in sede d’ingresso. Ne dico l'1% di quelle che conosco: il professore che, interpellato in qualità di semplice studioso e specialista, replica privatamente alla domande dello studente su di una possibile tesi di dottorato: “è interessante, come percorso: purché confermi quello che ho scritto io”; il direttore di galleria che risponde candidamente tra ammirazione ed imbarazzo ad un’auto-candidatura, dicendo: “ho letto il tuo saggio: magnifico. Ma cerca di capirmi, non posso assumerti: qui lavora già mia cognata” (non laureata in discipline artistiche, n.d.R.); il laureato che pubblica la tesi perché conosce un amico gallerista che commercia quel pittore dell’Ottocento, con conseguente scavalcamento di punteggio nei confronti di candidati in concorsi pubblici, come Dottorati o TFA, in cui la pubblicazione fa punteggio.
Se il web è diventato l’albero della cuccagna conoscitiva, in cui è possibile ritagliarsi percorsi di crescita individuale (debitamente integrati, se necessario), di lifelong learning, allora perché la moneta culturale, poi, si spende solo da parte di alcuni, mentre per altri viene svalutata? Il passaggio chiave è qui: in un’epoca in cui le nuove tecnologie mettono a disposizione informazioni, dati, possibilità infinite di auto-determinazione, sull’onda di questo slancio bisognerebbe fare qualcosa per portare la perdita dell’aura dall’opera d’arte ai conoscitori dell’opera d’arte. Una rivoluzione, cioè, sociale. Non conta chi sa, ma conta chi sa divulgare; non conta "il figlio di", ma conta il “raccontatore del”. Se di "aura" vogliamo parlare, non è di quella glacialmente scientifica, ma di quella dell'Omero cieco, che fa ben più civiltà del Professore sordo.
Gli insegnanti accademici scendano dal piedistallo. Sono soltanto dissezionatori di un cadavere che si chiama “libro di testo”, forme residuali di autorità sociale da cui, poi, scaturisce – e questo è inaccettabile – anche un’autorità culturale. L’alternativa: libere accademie, con affrancamento dal diritto d'autore a fini didattici del patrimonio fotografico delle opere d'arte; con l’obbligo di produzioni collettive (mostre, riviste, eventi) a mo' di esame; lezioni concertate, non frontali, a cura di "competenti" di cui sia accertato non solo il curriculum scientifico tradizionale, ma la capacità didattica e divulgativa. I santoni, col turbante, che turbano, dall'alto di uno scranno universitario, diffondono in storia dell'arte un patrimonio che, indifferentemente parlato o scritto, non è certo rianimato dallo studioso, ma dallo studente.
I curatori scendano dal piedistallo. Gli artisti non hanno bisogno d’intermediari per raccontarsi. I gatekeepers aprono i cancelli del mercato, non della cultura. Compreso il mercato delle mostre, in cui si vende l’immagine delle amministrazioni, e non si fa cultura. Cultura sarebbe conservare un’opera d’arte e valorizzarla, non metterla su di un depliant. O raccontarla: non etichettarla con aure mediatiche. Tiziano alle Scuderie del Quirinale – bellissimo. Ma la Flora stava bene a Firenze, e Paolo III benissimo a Capodimonte, un museo deserto, perché pare che oggi non bastino le opere, la cultura la devono promuovere necessariamente gli imprenditori, a costo di spostare le opere - ma solo fisicamente, ahinoi. Queste monografiche non aggiungono nulla di nulla. L’alternativa: gli artisti si auto-producano i propri scritti; i musei sviluppino sezioni virtuali, quando vogliono parlare di altro che del proprio patrimonio; si facciano meno mostre, e si organizzino più servizi educativi e laboratori, con meno curatori e più operatori didattici. I famosi curatori vengano a giocarsela sul web, anziché sulla carta stampata; a dibattere, e senza prendere una lira. Nei concorsi, sia abolito il concetto di “pubblicazione”: chi si arroga il diritto di stabilire che una rivista semestrale edita dai guru dell’ateneo sia immune alle cazzate, mentre un articolo sul web di chi abbia gettato il sangue sui libri per una vita sia “a-priori” un prodotto culturale di serie B? Baudelaire faceva il culo al Direttore e critico ufficiale di Le Figaro, Albert Wolff, o ai professori dell'Académie: un concorso degli anni duemila avvantaggerebbe un opuscolo di uno pseudo-scienziato rispetto ai suoi scritti d'arte!
Muoia Sansone, con tutti i Filistei; muoia il dissezionatore di cadaveri, con tutti gli apprendisti attorno; ne venga fuori una forza divulgativa che non risieda nei templi a-sociali, ma nella capacità di emergere per pura attivazione mentale, per pura agitazione passionale; anche sui social network, se necessario. Altrimenti si ammetta che si produce cultura per autoconsumo dei colti.
Portiamo l’insegnamento nei teatri, nei blog, nei musei, nelle associazioni. Aboliamo le tesi di laurea e sostituiamole con pratiche, eventi di laurea. Abbiamo visto la fine che fanno i cartacei degli studenti: nell'immondizia, come all'Università di Salerno o in quella di Bari. Ma il bidone della spazzatura aspetta piuttosto molti Relatori: chi controlla il controllore? Chi si occupa di un audit legale per verificare che quelle Istituzioni siano fabbriche della cultura? Quanto ancora un sapere, presuntamente superiore, darà potere di vita e di morte sulle carriere di chi studia? Il sapere deve diventare cultura, non potere.
Troppo? Troppo. Ma se proprio non dovesse succedere: almeno, quegli insegnanti e quei curatori, perdano la loro spocchia, rottamino la loro presunta superiorità – di censo “culturale”, o di derivazione parentale. Le enciclopedie ambulanti sono finite con Wikipedia, l’enorme “parricidio” per cui a contare non sono i padri della produzione culturale, ma i figli della fruizione. L'indovinello delle attribuzioni finisce con Google Images. Abbiamo bisogno di narrazioni ed esperienze, dell’ipertestualità del web portata nella società: libertà di movimento, senza gerarchia di un testo (e di una testa) dominante. Ci si arricchisce di depositi, non di depositari.
(in foto: Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp, 1632, L'Aja, Mauritshuis)